I ROMANI

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I ROMANI

Storia

Premessa Da un po’ di tempo mi interesso di storia e costumi della Romagna, in modo molto fai da te e quindi da dilettante. In particolare mi piace ricercare elementi di storia antecedente l’era moderna poiché di scritti, ricerche ed altre opere, narranti il periodo che inizia dall’anno zero fini ai nostri giorni ce ne sono a centinaia. In questi primi anni del terzo millennio è balzata d’attualità la “questione” Romagna. La Romagna deve essere regione distinta dall’Emilia oppure no? Sull’argomento si scontrano due posizioni quelli del SI e quelli del NO. Non nego che la mia posizione è fermamente a favore della Romagna, sia perché la popolazione avrebbe notevoli benefici, sia perché il vero federalismo si basa sul “controllo” dei piccoli territori e la Svizzera ce lo insegna. Non entro nell’argomento del Si o del No, ma considerato che, alcuni oppositori della Romagna cercano o tentano di svilirne l’identità culturale e soprattutto la sua storia, mi accingo a scrivere un qualcosa che non ha la pretesa dell’esaustività e tantomeno del “verbo”. Alcuni pseudostorici hanno detto che la Romagna è una invenzione nata poco prima dell’Unità d’Italia, con argomentazioni che lo storico quanto tale mai si sognerebbe di fare. Altri, individuabili fra i politici d’assalto, che non riescono a togliere un ragno da un buco (solo perché non riconoscono quale sia il buco e quale il ragno) asseriscono addirittura che la Romagna non esiste e non è mai esistita perché mai è stata determinata nei suoi confini. Roba da neurodeliri! Quando si cerca di produrre una rappresentazione storica, ci si riferisce ai documenti disponibili, ma si cerca pure di contribuire con un qualcosa di proprio ed io cerco di dare il mio contributo nel migliore dei modi. Nelle affermazioni o nelle mie tesi mi limiterò nell’indicare autori e testi, che poi sono i soliti, anche perché si creerebbe confusione fra i lettori. Si pensi poi che uno “studioso” di quelli che insegnano all’Università, durante una serata culturale dedicata alla Romagna, mi ha contestato affermazioni di Tito Livio perché, secondo lui non è credibile. Come se a quei tempi gli storici o i cronisti fossero centinaia. Comunque, mi sono servito a parte di Tito Livio, Erodoto, Polibio, Dionigi di Alicarnasso, Plutarco, Strabone, Diodoro Siculo, Plinio il vecchio ed altri che ho letto o che ho desunto da altri testi, anche di molti altri scritti e ricerche, quali quelle della Società di Studi Ravennati, di Mario Pierpaoli, di Arnaldo Roncuzzi, di Anselmo Calvetti, di Giuseppe Cortesi di Jacques Eurgon, di Andrea Palmucci, oltre a diverse enciclopedie. Non ritenendomi uno studioso, ma uno studente attempato, cercherò di essere il più chiaro possibile in questo compito che desidero sia recepibile da tutti, specialmente dai giovani. Non ricordo chi asseriva che: “per organizzare il proprio futuro è necessario conoscere le proprie origini e la storia del proprio passato”. Quindi: Un popolo che non conosce la propria storia è un popolo che non avrà futuro. Quando viene a mancare la conoscenza delle proprie radici qualsiasi individuo non ha alcun coinvolgimento emotivo e tantomeno interesse nell’essere se stesso. Anche colui che pur sapendo, rinnega o vende le fondamenta create dai suoi avi, non è degno di proclamarsi erede della sua stirpe. La storia non è acqua passata, come molti vogliono farci credere, ma è il passato, che è cosa ben diversa. Forse i miei argomenti saranno sconfusionati o confusionati, come meglio li vorrete interpretare, ma in ogni caso sappiate che mai ho pensato di affermare cose non veritiere, ma semmai dettate dal mio pensiero, basandomi sullo “sgond a me” (secondo me) già coniato dall’amico Avv. Riccardo Chiesa, romagnolista DOC. Intendo fare questa mia esercitazione come un grande ripasso di storia, che inizia dal XII sec a.C. per arrivare al 51 a.C. data in cui Giulio Cesare sottomise definitivamente i pochi nuclei di galliitalici rimasti nella cispadania, indicando gli accomunamenti dell’attuale Romagna con i tempi d’allora e facendo quindi trarre le conclusioni al lettore. Mi riferirò al territorio dell’Emilia e della Romagna, con particolare riguardo alla bassa in cui abito e di cui conosco maggiori particolari. Tutte le date che di seguito riporterò, salvo diversa indicazione, devono intendersi avanti Cristo. I LUOGHI E LA GENTE Già dalla preistoria si manifesta una linea di demarcazione fra due differenti aree geografiche e culturali. Il fiume Panaro ne evidenzia lo spartiacque e cioè nella parte nord quella che viene chiamata la civiltà delle terramare, con abitati protetti da arginature di terra, con capanne su palafitte e cosa importante, dal punto di vista dello studio, la cremazione dei morti. Nell’altra area geografica a sud e ad est del Panaro troviamo la civiltà villanoviana (nome derivante da ritrovamenti a Villanova di Castenaso) con una maggiore urbanizzazione mista su terra e palafitta e con due differenti culti dei morti, sia la cremazione (con la posa delle ceneri in urne di terracotta a forma di doppio cono, deposte nelle tombe insieme con oggetti personali del defunto), che l’inumazione. Da precisare che il Panaro rappresenta una antica linea geografica ed anche geofisica, ma non necessariamente la linea di delimitazione dei territori emiliani e romagnoli, come poi indicherò di seguito. Un insediamento villanoviano, con il passaggio della lavorazione dalla selce al bronzo poi al ferro, lo abbiamo trovato, durante scavi organizzati da una associazione amatoriale, di cui anche io facevo parte, guidata dal compianto Signor Marino Marini, nei primi anni del 1980 nei pressi di Longastrino di Argenta nella zona chiamata Bocca Grande che, in epoca villanoviana e fino ai primi secoli della nostra era, rappresentava la foce del ramo maggiore del Po. Già dal V sec. a.C., troviamo nelle nostre zone una mescolanza di quattro tipi di popolazioni. Quella autoctona rappresentata dai padusi-villanoviani, gli spineti, gli etruschi ed i celti. Quattro popolazioni con lingue e costumi diversi, ma che vivevano in un unico territorio. Si tratta forse di una delle prime importanti integrazioni, cui ne seguiranno altre, come vedremo in seguito. Mi soffermerò in particolar modo ad illustrare seppur succintamente, gli Spineti, gli Etruschi ed i Celti con la derivazione dei Galli. Delle prime due popolazioni (etruschi e spineti), sino ad oggi non si hanno molte informazioni se non sulla scorta dei pochi rinvenimenti, anche perché, a differenza di altre antiche popolazioni (sumeri, fenici, egiziani e greci) non ci sono pervenute tavole “informative” od altre forme di incunaboli. Anche le loro origini non sono certe ad hanno caratteri a volte leggendari ed a volte fantastici. Dei Celti, invece, si ha una maggior documentazione informativa. Di certo è che la prima civiltà villanoviana si è fusa principalmente con la cultura etrusca e celtica, poi successivamente con quella romana, sviluppando l’identità che oggi è propria dei romagnoli. Nel presente lavoro ho cercato il miglior approfondimento possibile e certamente in seguito sarà oggetto di aggiunte e modifiche, ritenendo questo scritto un punto di partenza e non di arrivo. Gli Spineti Sulla storia e vita di questa popolazione ci sono due scuole di pensiero. La prima li definisce etruschi abitanti della città di Spina, fondata dagli stessi. Per diverse ragioni questa tesi è difficile da sostenere, se non indicare il fatto che gli etruschi occuparono la città di Spina in due momenti, nel X e nel VI sec. a.C. L’altra scuola di pensiero, la più plausibile, si riferisce pure sui pochi ritrovamenti, che hanno messo in luce i modi di vita delle persone ed anche le loro caratteristiche fisiche. Questa scuola vuole che Spina sia stata fondata dai Pelasgi, antica popolazione originariamente non greca, presente in Grecia e nelle isole dell'Egeo già nel II millennio a.C. e migrata anche in varie regioni ed in particolare nella Samotracia, centro del culto religioso dei Cabiri, culto che poi troveremo pure presso gli Spineti. Alcuni sostengono anche che una piccola parte di Pelasgi seguì l’emigrazione lidica, sulle coste della Toscana, dando poi vita alla popolazione etrusca. Sta di fatto che Spina mantenne sempre strettissimi legami con la Grecia ed in particolare con l’Attica che secondo la leggenda era divisa in 12 villaggi pelasgici. Dalle necropoli di Val Pega e di valle Trebba si è potuto rilevare il passaggio culturale di questo popolo che per un certo periodo cremava i morti (primo periodopelasgico) poi successivamente (periodo etrusco) li inumava. Anche i corredi funerari, composti soprattutto di recipienti in ceramica, delineano le due epoche con la presenza di ceramica attica con figure rosse, pregevole e ben lavorata ed altra ceramica etrusca colorata in nero o solamente cotta. Qualche manufatto in bronzo attesta l’occupazione di Spina da parte degli Etruschi. Certamente la stessa Spina può essere divisa in due periodi, la prima Spina e cioè quella fondata dai Pelasgi e la seconda Spina, dopo la seconda occupazione etrusca. Dionigi di Alicarnasso ci dice che Spina fu fondata circa nel 1514 a.C. dopo il diluvio di Deucalione, quando i Greci dall’Epiro salparono alla volta di Saturnia (Italia) per sbarcare alla foce del Po, in quella zona che poi fu chiamata “spinetica”. Sempre Dionigi ci dice che i Pelasgi per la loro sicurezza si ritirarono tra i luoghi bassi e paludosi del mare, andando a popolare le isolette che si erano rese scoperte qua e là tra le paludi padane. Il declino della Spina occupata dagli Etruschi inizia dal III sec. a.C. col cominciare del declino degli stessi Etruschi e con l’assedio dei Galli. Gli Etruschi Da dove venivano? Ci sono anche per loro due diverse scuole di pensiero. La prima, che secondo me è la più credibile, ritiene che gli Etruschi siano di origine illiricoellenica, trasferitisi sulle coste delle attuali Toscana e Marche in diversi tempi e da diverse zone. I primi probabilmente furono i lidi, dopo una grande carestia che, nel XIII sec. a.C. aveva colpito la Lidia, stabilendosi poi oltre che nelle zone indicate pure in Sardegna. La Lidia era regione dell'Asia Minore sul mar Egeo, confinava con la Misia, la Caria e la Frigia. La sua capitale si chiamava Sardi. Da questo deriva il nome “Sardinia” (Sardegna) terra del popolo di Sardi. Nel medesimo tempo (più o meno) anche una gran parte degli Illiri emigrarono sulle coste settentrionali dell’Adriatico. L’Illiria era una antica regione che occupava la parte occidentale della penisola balcanica, dal Danubio all'Epiro. Si trattava di un popolo indoeuropeo che comprendeva quei Dalmati e Pannoni che successivamente diventarono pur essi Celti. Già queste popolazioni, una balcanica e l’altra greca, mischiate alle altre autoctone, avevano necessità di colloquiare fra di loro e quindi coniarono un nuovo idioma; un misto di dialetti i più disparati, che costituirono poi quello che venne chiamato Etrusco, ancora oggi per la maggior parte sconosciuto. Da queste popolazioni nacquero pure gli Umbri ed i Piceni. Gli Umbri erano una popolazione compresa fra in Tevere e l’Adriatico che parlava una lingua chiamata osco-umbro, dove osco sta per Etrusco. A seguito poi (circa VI sec. a.C.) dell’espansione etrusca da ovest, sannitica da sud e gallica da nord, gli Umbri si collocarono nella zona corrispondente all’attuale regione Umbria. I Piceni, anche loro di origine villanoviana, abitavano la regione compresa fra gli Appennini e l’Adriatico delimitata dei fiumi Esino e Salino. Fu circa nell’XI sec. a.C. che conobbero l’influenza culturale etrusca e balcanica. La seconda scuola di pensiero ritiene che gli Etruschi siano una popolazione indigena del centro Italia che abitava appunto la Tuscia e le zone limitrofe (attuale Toscana). Potrebbe anche essere, ma è difficile poter pensare e quindi riuscire a capire la complessità della cultura e degli usi, nonché i diversi modi di vita quotidiana, anche a distanza di pochi chilometri, di questa popolazione. Ciò potrebbe essere se la popolazione si fosse colà formata fin dal Neolitico, ma è cosa molto difficile ed ardua da sostenere. I Celti I Celti (keltoi) è il ceppo di quella popolazione che successivamente fu chiamata “galli” (galati). Tribù celtiche di piccole dimensioni erano già presenti nel nord dell’Italia già dal 700 a.C. ed avevano portato le prime conoscenze dell’età del ferro e successivamente nel V sec. la pratica della “pompa magna” nelle sepolture oltre alla fortificazione dei villaggi, che venivano invasi da altre popolazioni scese dal nord Europa. In questo periodo si ebbe la maggior migrazione pacifica dei popoli celto-gallici, dall’attuale Francia, verso la Lombardia, venezie e terre etrusche. Le prime grandi invasioni di tribù galliche avvennero invece a partire dal V sec. e successivamente con la presa, nel 400 a.C., di Mediolanum (Milano) da parte degli “Insubri”, di Brescia da parte dei “Cenomani”, di Bologna da parte dei “Boi” e della nostra zona, fino alle Marche, da parte dei Senoni. I galli Senoni e Boi si stanziarono principalmente nella zona a sud-est della pianura padana fino ai territori dei Piceni. Ci fu per circa tre secoli un andirivieni di tribù galliche che si mescolano alla popolazione locale già formata dalle precedenti mescolanze di villanoviani, Etruschi, Spineti e primi Celti. Iniziarono dal IV sec. a.C. i contatti fra i Galli ed i Romani quasi esclusivamente caratterizzati da ostilità. Si trattava di due popoli che cercavano la preminenza del controllo. In un primo momento furono favoriti i Galli (dal 390 al 283 a.C.) e successivamente i Romani cominciarono le campagne militari, sconfiggendo e ricacciando per circa un secolo le tribù galliche nei loro territori originari. La storia romano-gallica si conclude con la sottomissione, nel 51 a.C. ad opera di Giulio Cesare, dei Galli non solo italici, ma anche galli-celtici nei loro territori del Nord Europa. I Boi furono la tribù celtica più numerosa e potente, si spinsero pure in Boemia (che appunto vuol dire terra dei Boi) ed in Pannonia dove avevano fatto una coalizione con le tribù celtiche degli Aravisci e dei Breuci. Cambieranno il nome etrusco di Felsina (Bologna) in quello gallico di Bononia, lo stesso nome dell’altra Bononia, l’attuale Vidin, città della Bulgaria al confine con la Romania, quindi nell’antica Pannonia occupata dai Boi. Secondo Strabone, i Galli avevano la passione per la guerra, erano irascibili e se venivano stuzzicati si buttavano nella mischia. Non venivano facilmente a compromessi e rimanevano fermi sulle loro decisioni. Si associavano sempre all’indignazione di chiunque sembrasse loro, vittima di una ingiustizia. Tito Livio dice dei Senoni: “… gente per istinto portata a inutili schiamazzi … di canti selvaggi e di urli strani ...”. Altri tribù galliche che si stanziarono nell’Italia del nord furono: i Biturigi, gli Arveni, gli Edui, gli Ambarri, i Carnuti, gli Aulirci, i Libui, i Salluvi e diverse altre tribù minori. Storia geografica 7.000 anni or sono (circa) finiva la glaciazione della bassa Europa e con essa si identificava e prendeva forma il litorale marino dell’alto Adriatico. Mentre la costa a sud di Numana non subiva variazioni, quella a nord fino a Venezia ha subito moltissimi cambiamenti nei secoli, come continua a subirli oggi e li subirà in futuro, con un processo di ritorno, a causa della subsidenza. Si può stabilire che nel 3.500 a.C. la battigia romagnola da Pesaro a Ravenna fosse all’incirca dove si trova oggi la statale 16 Adriatica per proseguire poi con una linea semiellittica da Sant’Alberto, Spina, Adria e Chioggia, mentre sulla linea a sud di Ravenna il terreno era “consolidato” e la zona a nord, per la presenza delle foci del fiume Po, era pressoché paludosa. Si data poi circa a quegli anni una grande inondazione (altri la chiamano diluvio) che colpì la valle padana, cancellando ogni segno di vita umana. A quei tempi le popolazioni cercavano zone da abitare dove fosse più facile cacciare e pescare, l’attuale Romagna si prestava molto bene a questo sia per le grandi aree boschive che per le zone acquatiche. In un millennio il territorio si ripopolò e si formarono le prime comunità villanoviane. Basti pensare che nel sottosuolo di Ravenna a circa 7,5 m dall’attuale livello del mare sono state ritrovate pavimentazioni palafitticole databili a circa il 2.300 a.C.. A quel tempo la foce maggiore del Po si trovava nella Valle del Mantello di Longastrino nella zona che fu poi chiamata Boccagrande del Po e che ancora oggi porta questo nome. Intanto lo sbocco del Po, per apporto di sedimenti si stava ostruendo, creando qualche miglio più a nord una nuova foce chiamata Spineta o Po Spinetico e successivamente Eridano. La foce si trovava dove fu poi costruita la Città di Spina, nei pressi di Comacchio. Da allora l’innalzamento del terreno fino a circa l’anno 1.000 della nostra era è stato abbastanza costante con l’apporto di detriti dei fiumi alpini ed appendici che sfociano in Adriatico, in massima parte dal Po. LA STORIA Per quanto riguarda il nostro territorio si sono scritte tante cose, a volte anche a sproposito, e tante ancora se ne scriveranno. Sull’argomento, molto importante dal punto di vista delle nostre origini, è stata la Selva Litana, per la sua geografia ed anche quale riferimento ad una delle battaglie più cruente fra Galli e Romani, dove i Romani conobbero una delle più grandi sconfitte della storia. Citazioni precise sulla battaglia della Selva Litana le troviamo inizialmente nella “Storia di Roma” di Tito Livio per arrivare ai giorni nostri con un buon dettaglio da parte di scrittori locali fra i quali Anselmo Calvetti, Mario Pierpaoli, Arnaldo Roncuzzi e qualcun altro. Preambolo L’anno 753 a.C. (21 aprile) è considerato la data tradizionale della fondazione di Roma. Da questa ebbe inizio la cronologia della storia romana con i governi dei sette Re, i primi quattro Romani e Sabini, gli ultimi tre Etruschi. La dinastia Etrusca in Roma iniziò nel 616 quando Tarquinio Prisco successe ad Anco Marzio. In questo periodo, a parte alcuni scontri di poca importanza fra Etruschi e Romani, la spaccatura avvenne nel 509 quando i Romani cacciarono Tarquinio il Superbo ed ancor più quando, nel 506, i Latini sconfissero Porsenna, re etrusco di Chiusi, segnando il declino della supremazia etrusca nel Lazio. Nel VII sec. a.C. per la seconda volta gli Etruschi conquistarono la città di Spina che era uno dei maggiori porti dell’Adriatico situato alla foce dell’antico Po, appunto chiamato Spinetico. Gli Etruschi consolidarono il loro dominio nella bassa Padania occupando la linea che andava da Marzabotto – Felsina – Spina, spingendosi in altri siti del nord Italia. I primi gruppi celtici del nord Europa entrarono in Italia nel VII sec. stanziandosi nel Piemonte, nella zona prealpina della Lombardia e del Vicentino. Gli Etruschi impauriti da queste occupazioni, ma anche sollecitati dalle popolazioni occupate, mossero verso nord e si scontrano con i Celti nella prima battaglia del Ticino (da non confondersi con la seconda battaglia del Ticino del 218). Questa fu la prima grande vera battaglia di cui si abbia notizia fra popolazione locale e Celti, peraltro senza aver conoscenza di una data precisa che può indicarsi all’incirca nel 650 a.C. Nel VI sec. a.C. anche le popolazioni celtiche dell’attuale Francia e Germania, iniziarono le conquiste oltre i loro confini. L’attuale Romagna allora era abitata da autoctoni che nei secoli si erano mescolati prima con i Pelasgi (Spineti) e successivamente con gli Etruschi. Era una popolazione tipicamente dedita all’agricoltura ed all’allevamento del bestiame nella parte di territorio che dianzi ho indicato come “asciutta” e dedita alla caccia ed alla pesca nella parte che ho indicato come “umida”. All’arrivo nelle nostre zone di galli Boi (dal Secchia al Sillaro), galli Lingoni (dal Sillaro all’Utis) e di galli Senoni (dall’Utis all’Esino) le popolazioni autoctone dovettero adeguarsi agli usi dei nuovi arrivati se non altro perché questi ultimi ragionavano a fil di spada. Il fiume Utis è stato individuato dagli storici come il Montone, ma in effetti il limite fu il Sinnium (Senio) che voleva appunto indicare la linea dei Senoni. Nel giro di un secolo le diverse etnie si integrarono fra di loro a seguito dei matrimoni misti, quindi la popolazione diventa un misto di razze (autoctona+spineta+etrusca+celta) come poi si modificherà dopo il II sec. a.C. con la venuta dei Romani. Si può dire che il ceppo dei romagnoli di oggi non è altro che la mescolanza di 5 popoli. Dal 450 al 400 a.C. le ultime roccaforti Etrusche di Spina, Ravenna e Rimini caddero sotto la potenza celtica di Boi e Senoni. Sebbene ambedue popoli “barbari”, i Boi e Senoni mantenevano una vera e propria divisione se non per una ragione di interesse territoriale anche per mentalità, culture e tradizioni diverse, in quanto i Boi erano originari della valle del Reno (tedeschi) ed i Senoni della valle della Senna (francesi). Sarebbe come dire che, fra Emiliani (Boi) e Romagnoli (Senoni) c’è sempre stata un po’ di ruggine. In verità c’è da dire che i Boi accorsero in difesa dei Senoni quando questi ultimi furono attaccati dai Romani, ma ne parlerò di seguito riferendomi alla Selva Litana. Fra questi due facevano da cuscinetto i Galli Lingoni originari delle vallate della Marna che scende dall’altopiano di Langres per immettersi nella Senna. La battaglia di Allia Nel 390, i Senoni, comandati da Brenno, dopo aver sconfitto l’esercito romano, saccheggiarono Roma. Ma perché successe questo? I Senoni mai si sarebbero permessi di attaccare l’esercito romano che era molto più forte sia in uomini che in mezzi. L’intenzione dei Senoni era invece quella di occupare le terre dell’Italia centrale appartenenti agli Etruschi, approfittando del fatto che la maggior parte dell’esercito etrusco era salito al nord per contrastare la continua calata di galli. I Senoni decisero quindi di occupare le terre a sud-ovest di Sena Gallica (Senigallia) fino al lago Trasimeno. Assediarono la città di Camars (Chiusi) che chiese l’aiuto dei Romani con i quali avevano buoni rapporti di vicinato ed interessi commerciali. Il senato romano inviò a Chiusi alcuni legati per tentare una via diplomatica con l’invito ai senoni a desistere dall’assedio e prendere contatti con Roma per risolvere la cosa pacificamente. I Senoni dopo un’assemblea popolare risposero che, visto che i romani non erano scesi in armi e volevano risolvere pacificamente la contesa, avrebbero accettato la pace in cambio della cessione da parte di Chiusi di un ampio territorio da poter coltivare. Uno dei legati romani, mentre gli altri erano partiti per portare la proposta dei Senoni al senato romano, organizzò la popolazione di Chiusi alla difesa, ruppe le trattative ed uccise un capo dei Senoni. Ciò è quanto riporta Tito Livio. I Senoni decisero di abbandonare l’assedio di Chiusi e di marciare su Roma, dopo aver chiesto al senato romano la consegna del legato che aveva violato la tregua, ottenendo però una risposta negativa. I Romani furono quindi travolti dai Senoni e sconfitti nella battaglia del fiume Allia (oggi fosso di Bettina) che sfocia nel Tevere a 18 km a nord di Roma. Su questo evento Tito Livio presenta una sua versione dei fatti e cioè che i Senoni entrassero a Roma senza alcun scontro armato perché l’esercito romano fu terrorizzato e messo in fuga dal grido di guerra dei Senoni. Polibio cita, invece, che ci fu ad Allia una cruenta battaglia dove una parte dell’esercito romano fuggì rifugiandosi a Vejo, mentre l’altra parte si disperse e gli ufficiali ed i senatori si rifugiarono nella rocca del Campidoglio. Dopo una settimana di assedio, Brenno, convinse i Romani a trattare il riscatto della città. La città fu riscattata e fra Senoni e Romani fu firmata una tregua di trent’anni. Secondo Polibio invece, Brenno fu costretto ad abbandonare Roma per accorrere in aiuto alle altre truppe dei Senoni stanziate al nord che erano state attaccate dai Veneti. Cosa alquanto improbabile poiché risulta veritiera la firma della tregua per trent’anni. Nel caso che i Senoni fossero fuggiti da Roma, certamente i Romani non gli avrebbero dato tregua, ma avrebbero dato man forte ai Veneti. La battaglia di Sentino Passati 5 anni dalla fine della tregua e cioè nel 295 a.C. i Romani, che non avevano dimenticato il torto subito, intenzionati a dare una sonora lezione ai Senoni, decisero di occupare i territori del litorale adriatico. I Senoni venuti a conoscenza delle intenzioni, strinsero un’alleanza con i Sanniti, acerrimi nemici di Roma, e mossero contro l’esercito romano che sconfissero a Camerino. Il senato romano però non si scoraggiò, sempre più meditando vendetta e riorganizzò un nuovo esercito con due comandanti, il primo il console Decio Mure che a Sentino (oggi Sassoferrato) attaccò i Senoni, dai quali fu sconfitto ed il secondo, il console Fabio Rulliano che sempre nelle vicinanze di Sentino attaccò i Sanniti che vennero messi in fuga. Le due ali dell’esercito romano si riunirono ed attaccarono nuovamente i Senoni che furono sconfitti con gravi perdite di uomini e mezzi. Iniziò così la vendetta romana contro i Senoni che nuovamente vennero sconfitti e quasi decimati, nello stesso anno, dal Console Manio Curio Dentato che annesse a Roma i territori dell’Ager Gallicus, da Senigallia a Rimini. Ciò è quanto asserisce Polibio, ma altri storici ritengono che l’annessione a Roma dell’Ager Gallicus riguardasse i territori da Senigallia alla foce del Po ed anche la valle dell’alto Savio compresa la città di Sassina (Sarsina). Una parte dell’esercito dei Senoni scampata a Curio dentato si rifugiò nelle terre dei Lingoni, fra il Senio ed il Sillaro, mentre le famiglie dei non facenti parte all’esercito rimase sul territorio occupato dai romani. Dal 283 a.C. iniziò un periodo di pace, salvo qualche scaramuccia, fra i romani e le tribù galliche della valle padana. Questa tregua terminò quando nel 238 a.C. i galli Boi diedero inizio agli scontri con i romani per occupare la città di Rimini, che i romani avevano tolto ai Senoni 45 anni prima. Più volte Rimini fu assediata dai Boi con l’aiuto di ciò che restava dei Senoni che si erano rifugiati nella Selva Litana e ciò indusse i Romani a rafforzare le difese della città. La Lex Flaminia Nel 232 a.C. il console Caio Flaminio, tribuno della plebe, fece approvare una legge per l’assegnazione alle famiglie romane delle terre conquistate ai Senoni. Questa legge fu chiamata la “Lex Flaminia” che trasformò l’”Ager Gallicus” in “Ager Publicus”. Iniziarono così le centuriazioni romane da Senigallia fino alla valle del fiume Savio e proseguirono fino al 218 a.C. Questo territorio divenne quindi popolato dagli autoctoni (miscuglio di Spineti, Etruschi e Senoni) dai Romani e da alcuni gruppi di galli Boi che da Bologna erano scesi nel riminese. Oltre al misto di popoli si creò un misto di lingue; genti che fra loro non si comprendevano facilmente poiché non tutti parlavano il latino. Ciò indusse le popolazioni o forse nacque spontaneo un idioma che permettesse a tutti costoro di potersi capire. Ci dice Tito Livio che con la “Lex Flaminia” si consolidò la potenza di Roma che, con i territori annessi diveniva la Magna Roma. A questo punto voglio fare una deduzione, invitando gli storici ad approfondire l’argomento. Tito Livio che parlava latino anteponeva l’aggettivo al sostantivo (Magna Roma) così come i galli Boi originari della valle del Reno, mentre i galli Senoni e le altre tribù originarie del centro e del sud della Francia anteponevano (come del resto lo facevano gli etruschi) il sostantivo all’aggettivo (Roma Magna). A mio avviso anche se non esiste una documentazione specifica, ma solo accenni, il nome Romagna deriva da (Roma Magna) per effetto della Lex Flaminia. Ritorniamo alla storia. Nel frattempo anche in altre parti d’Italia, le popolazioni celtiche cercavano alleanze per poter fronteggiare l’espansione romana che aveva annesso già dal 225, la Toscana, le Marche e la bassa Romagna fino al fiume Senio. I più preoccupati erano i Boi perché poco bastava ai Romani per attraversare il Senio, il Santerno ed il Sillaro per poi occupare i territori del Bolognese e del Modenese ancora in loro mani. Oltretutto il vecchio potente esercito dei Boi si era indebolito dopo la grave sconfitta subita nella battaglia di Telamone (225 a.C.) quando accorsero in aiuto dei Taurisci e degli Insubri che venivano sopraffatti dai Romani. Questi furono gli anni dello scombussolamento delle tribù celtiche. A seguito della sconfitta di Telamone, i Boi trattarono la resa con i Romani nel 224 mentre altre tribù (Anari e Cenomani) si allearono con gli stessi Romani e nel 222 sconfissero, a Clastidium (Casteggio), sotto il comando del console Claudio Marcello, gli Insubri occupando Milano. Intanto i pochi Senoni e Lingoni rimasti nel loro enclave non erano disturbati da nessuno come se fossero stati dimenticati in quella selva desolata e valliva. Annibale attraversa le Alpi Nel 220 a.C., i Cartaginesi sotto il comando di Annibale Barca decisero di invadere l’Italia passando da Spagna e Francia, consci però che il grosso dell’esercito romano li avrebbe affrontati nella Pianura Padana. I Romani però, pur ritenendo tatticamente giusto contrastare i cartaginesi nella Pianura Padana, erano preoccupati da una eventuale sollevazione dei Galli che pochi anni prima erano stati soggiogati, ma che sempre erano in fermento. Nel 218 a.C. si ebbe una prima sollevazione di Boi in attesa dell’arrivo dei Cartaginesi che attaccarono i Romani sulle terre appena conquistate. Le legioni romane furono costrette ad asserragliarsi a Tennero, mentre i coloni si rifugiarono a Modena. All’inizio dell’anno i Cartaginesi valicarono le Alpi, ma furono decimati dal freddo e dalla fame si che solamente 30.000 soldati riuscirono a raggiungere la valle padana. I Romani intanto si attestarono su tre linee, la prima fra il Ticino ed il Po, la seconda fra Piacenza e Cremona e la terza fra Piacenza e Modena. Alla battaglia del Ticino, i Romani ebbero la peggio e si ritirarono nella roccaforte di Piacenza. Quando i Cartaginesi giunsero nei pressi di Piacenza, ci fu una defezione dalle fila romane, da parte di alcune migliaia di cavalieri celti (aggregati) che, prima di passare con i Cartaginesi, uccisero molti dei loro ex-commilitoni romani. A questo punto ci fu la sollevazione da parte delle tribù celtiche che abitavano la zona e corsero a dare man forte all’esercito di Annibale. Al fiume Trebbia, Cartaginesi e Celti inflissero una grave sconfitta ai Romani. Dopo questa vittoria si irrobustì l’alleanza fra Cartaginesi e le tribù celtiche che indicavano in Annibale il loro liberatore. Però Annibale non si fidava molto dei Celti, visto il loro precedente comportamento. Annibale calò nel centro e sud dell’Italia infliggendo numerose sconfitte ai Romani; da ricordare le battaglie del Trasimeno e di Canne. Durante queste battaglie, Annibale, per risparmiare i propri uomini, mandò all’attacco i Celti Cisalpini che subirono gravi perdite, si da indurre la gran parte dei superstiti a ritornare nella valle padana. La battaglia della Selva Litana Nell’estate del 216 venne inviato in “Gallia” (indica così Tito Livio, ma deve intendersi nella Gallia Padana) il pretore Lucio Postumio, con l’incarico di debellare definitivamente le bande di Senoni e Lingoni che saccheggiavano i territori dei coloni romani beneficiati dalla Lex Flaminia. Quando i galli Boi seppero che Lucio Postumio aveva intenzione di attaccare quel poco che era rimasto dei Senoni e dei Lingoni, e che la stessa sorte sarebbe poi toccata ad essi, corsero in aiuto di quei loro fratelli con i quali c’era sempre stata nei secoli una certa ruggine. I Romani decisero di attaccare i Galli nel loro stesso territorio, la Selva Litana, ma qui subirono la più grave sconfitta che l’esercito romano avesse mai conosciuto. Cita Livio (XXXII-24): … nova clades nuntiata …“ … fu annunciato un ulteriore disastro, quasi che la fortuna non ne avesse accumulato uno dietro l’altro in quell’annata: il console designato Lucio Postumio era sto ucciso in Gallia assieme a tutti i suoi uomini. C’era un’ampia foresta, Litana è il suo nome gallico, attraverso la quale Lucio Postumio doveva far passare il suo esercito. I Galli avevano provveduto a fessurare gli alberi che si trovano sul ciglio destro e su quello sinistro del sentiero, in maniera che rimanessero ben diritti, ma che, appena li si fosse leggermente toccati, si abbattessero al suolo. Postumio aveva con se due legioni romane e aveva arruolato dalle coste del mare superiore (mare Adriatico) un così numeroso contingente di alleati che era entrato con ben 24.000 uomini nel territorio nemico. I Galli, che si erano appostati al margine estremo della foresta, allorché la colonna romana vi s’inoltrò, diedero delle spinte agli alberi che avevano fessurato per ultimi. E gli alberi crollando gli uni sugli altri, tutti instabili, nessuno che ormai si reggeva sulle sue radici, provocarono grande strage da entrambi i lati della strada travolgendo armi, uomini e cavalli e consentendo la fuga ad appena 10 uomini. Infatti già la maggiore parte era stata uccisa dai tronchi degli alberi e dagli spezzoni di rami; poi la massa dei sopravvissuti, frastornata da quel disastro inatteso, fu sterminata dai Galli appostati tutto intorno al bosco. Di tanti che erano i romani i pochi catturati furono quelli che cercarono di guadagnare un ponte sul fiume, ma si trovarono la strada sbarrata dai nemici che lo avevano precedentemente occupato. Lì fu ucciso Postumio mentre combatteva con ogni sua energia per non essere preso vivo. I Boi in festa portarono al tempio che essi considerano il più sacro, le spoglie del corpo del comandante e il suo capo mozzato …”. Aprendo una parentesi, sembra che la parola “litania” intesa come lamentela prolungata, derivi appunto dai lamenti dei romani feriti sotto il peso degli alberi nella selva Litana. Se si pensa che su 25.000 soldati romani se ne salvarono solo 10 e che la maggior parte, uccisa dai Galli, era rimasta ferita, vuol dire che le uccisioni sono durate diversi giorni durante i quali si udivano gli interminabili lamenti dei poveri soldati romani feriti. Ma dove si trovava la Selva Litana? Ubicazione della Selva Litana Discordi sono i diversi autori sull’ubicazione di detta selva. Attingendo dai vari ricercatori, confrontando vecchie carte, avvalendomi della biblioteca della Casa Matha e documentandomi come meglio ho potuto, mi sono fatto una idea che penso non si discosti molto dalla realtà. Non è per niente facile trovare anche il minimo indizio su località e fatti che datano almeno 2.500 anni. Bisogna cominciare da molto lontano nella ricerca topografica e storica del territorio a nord di Ravenna per poter avere un quadro geografico il più preciso possibile. Basilari sono stati per me gli scritti e gli studi dell’amico Arnaldo Roncuzzi che dal punto di vista storiografico della topografia del delta padano con particolare riferimento alle zone di Comacchio e Ravenna, è senza ombra di dubbio un luminare. Io ho individuato la Selva Litana nel territorio compreso, a nord, fra il vecchio corso del Reno quando entrava in Po nella parte ferrarese, a sud lungo la valle del fiume Ronco, ad ovest all’inizio della pianura appenninica (ipoteticamente l’attuale linea della via Emilia) e ad est fino alle valli adiacenti il mare adriatico che possiamo individuare come linea ultima all’incirca la retta tracciata fra Ravenna ed Adria fino al punto in cui incrociava il Po di Spinete nei pressi di Comacchio. Questa linea era rappresentata da un cordone dunale che delimitava gli antichi lidi adriatici. Parlando di oggi si può perimetrare la selva litana in Bologna, Forlì, Ravenna, Comacchio (Spina), Ferrara, Bologna. Si trattava di oltre 2.500 kmq di territorio più o meno boscoso ed in gran parte, verso la foce del Po, molto paludoso ed acquitrinoso. La linea del mare indicata fra Ravenna e Spina non ha bisogno di approfondimenti se non segnalare che già Strabone, Dionigi d’Alicarnasso, Polibio, Hellanico e Scilace la individuarono in quei pressi più o meno 2 o 3 km da detta linea verso il mare. La zona per le notevoli alluvioni dei fiumi era molto fertile quindi ideale anche per estensioni altamente boschive. Arduo è voler individuare temporalmente la sua formazione, ma la si può fare iniziare dopo l’ultima deglaciazione con inizio a circa 10.000 anni or sono e terminata circa 4.000 anni dopo, quando emerse dalle acque la valle padana. Sappiamo per certo che circa 1.000 anni a.C. i Pelasgi (Spineti) utilizzavano il legname dei boschi per costruire le navi e le palafitte, così come successivamente lo fecero gli Etruschi ed i Celti per arrivare a dati più certi quando nel 391 a.C. i galli Senoni al comando di Brenno saccheggiarono Roma, partendo dalle foreste che davano sull’Adriatico ed in quei boschi si rifugiavano per scampare al nemico. Quel cordone dunale che ho indicato in precedenza ha subito nei secoli diverse modificazioni ed è pensabile che nel III sec. a.C. avesse un percorso semiellittico che andava dall’attuale Classe, Ravenna, Savarna, Argine d’Agosta, Spina, Merozzo, Pomposa, Mesola. Mentre ad est di questa duna sabbiosa e ghiaiosa c’era il mare, ad ovest c’erano valli salmastre che partendo ad ovest di Classe, sempre con un percorso semiellittico, erano delimitate all’incirca all’attuale San Michele, Villanova di Bagnacavallo, Lavezzola, Ostellato e Codigoro. Questo a grandi linee, ma rimando per un maggior e dettagliato approfondimento, a chi interessa, alla lettura del documento redatto da Lelio Veggi ed Arnaldo Roncuzzi: “Studi idrogeologici dei territori padani inferiori” – Atti della Casa Matha – quaderno IV – anno 1970. In mezzo a queste valli, non molto profonde, c’erano diverse terre emerse che venivano loro stesse chiamate “valli” in parte coltivabili solo in alcuni periodi stagionali, erano quindi abitate e pur subendo le alluvioni di piena, erano abbastanza sicure. Di queste isole le più importanti nella nostra zona erano l’isola sabbionara, poi diventata nei secoli, la Contrada Grossa e successivamente Le Alfonsine e l’isola del pereo poi diventata Il Pereo e successivamente Sant’Alberto. Abbiamo così delimitato la selva litana sia nella parte “asciutta” che “umida”. Calvetti indica il luogo, fra il Ronco - Bidente ed il Santerno. Cita poi lo storico G.F. Rambelli nelle sue “Memorie Storiche dell’Alfonsine”: “La Selva Litana poi che occupò tanti de’ luoghi i quali la Padusa ritiratesi lasciava asciutti, si stese su quella parte del territorio alfonsinate che rimase all’acque discoperto”. Ed il Melandri nelle “Notizie storiche di Fusignano” riprende il Muratori: “Chi credere non può che la Selva Litana ingombrasse non poco di quel territorio tra la via Emilia ed il Po, vale a dire di Cottignola, Lugo, Fusignano, Bagnacavallo, Alfonsine ecc.” . A questo punto c’è una considerazione da fare. Quando Livio dice “ … I Boi in festa portarono al tempio che essi considerano il più sacro …” doveva trattarsi di un luogo molto importante per i galli. A mio avviso si trattava della selva di pianura un cui luogo principale e maggiormente popolato era “Lugh” (attuale Lugo di Romagna) di origine etrusca e successivamente abitato dai Senoni i quali avevano nominato questo luogo con il nome del loro dio “Lugh”. Sia gli Etruschi che i Celti consideravano le selve ed i boschi, luoghi sacri e mettevano a loro difesa e controllo un centro abitato con il nome di un dio. Anche Litana era il nome della dea celtica dei morti. Può essere che questo nome sia stato dato alla selva successivamente alla battaglia per indicare che in quel luogo ci furono tanti morti. Altri nomi di dei celtici li troviamo nell’attuale toponomastica locale come l’antica Valle Dana fra Fusignano ed Alfonsine. Dana era la dea celtica della caccia che poi era la stessa dea Diana per i Romani. Sembra che pure per gli Etruschi la dea della caccia fosse anch’essa Dana. Quindi può essere che i Celti si siano appropriati e tramandati il nome della dea etrusca. Curiosità di cultura alimentare dei Litani Indico come Litani, gli abitanti della Selva Litana che come detto in precedenza si estendeva per diverse centinaia di chilometri quadrati. Riprendendo le tre tribù galliche che abitavano detta selva, e la loro collocazione territoriale all’interno della stessa, partendo da sud e cioè: i Senoni fino al fiume Utis (Montone) o al Senio, i Lingoni fino al Sillaro ed i Boi oltre il Sillaro, voglio sottolineare una cultura alimentare ancora presente ai giorni nostri, che delinea uno dei tanti caratteri che da luogo alla identità di un popolo. Dal Ravennate spostandoci verso sud quindi nell’area senonica c’era allora come oggi una tradizione per la carne ovina più che quella suina, per il fatto che i Senoni erano allevatori di pecore. Al nord, dopo il Sillaro, verso Bologna e Modena si preferiva allora come oggi, la carne suina; infatti i Boi allevavano il maiale. Nella zona cuscinetto fra il Montone ed il Sillaro, occupata dai Lingoni, c’era allora come oggi una cultura mista sia per la carne di pecora che per quella del maiale. Non conosco la datazione dell’invenzione dei cappelletti che ritengo un mangiare molto antico, ma anche questi hanno subito la stessa tradizione della carne con una preparazione diversa del ripieno. Nel ravennate in giù, dove c’era la cultura alimentare della pecora, il ripieno è composto di un battuto di solo formaggio. Da Imola in su, dove c’era la cultura alimentare del maiale, i cappelletti prendono il nome di tortellini il cui ripieno è composto esclusivamente di carne. Nel territorio intermedio, che dianzi ho chiamato cuscinetto, dove c’era la cultura alimentare mista della pecora e del maiale (Lavezzola, Conselice, Massalombarda, parte del lughese, ecc.) ci sono zone in cui i cappelletti vengono riempiti con un impasto di formaggio e trito di carne e frattaglie. DAL 216 AL 201 ??? Le notizie non sono tante e quanto pervenutoci è molto confusionato. Di certo nel 216, Annibale sconfigge a Canne i consoli M. Terenzio Varrone e L. Emilio Paolo e nel 207 Asdrubale sceso in Italia per porre aiuto ad Annibale, viene sconfitto ed ucciso dai Romani nella Battaglia del Metauro. La campagna contro i Galli della Val Padana Nel 201 a.C. gli Umbri-Sapini, alleati dei Romani, fecero pressione su questi ultimi per attaccare Boi, Senoni e Lingoni che, a loro dire, facevano scorrerie nei territori a sud del fiume Savio. Ma gli Umbri mentivano poiché il loro solo scopo era quello di riconquistare i territori persi secoli prima per mano etrusca. I Romani caddero nell’inganno ed incaricarono: il prefetto Caio Ampio di marciare contro i galli e scacciarli dai territori a nord di Ravenna fino a Sillaro ed il console Publio Elio di sconfiggere i Boi e scacciarli dai territori dal Sillaro a Modena. Cita Livio che Ampio saccheggiò i territori dei Boi, poi dopo aver disposto i legionari romani per la mietitura del grano, fu sopraffatto, presso Mutilum (Modigliana) e fu ucciso assieme a 7.000 Romani. Non si conoscono le cronache delle battaglie di Publio Elio contro i Senoni, ma si ha il dubbio che esse non siano mai avvenute e che invece Elio abbandonasse i territori dei Senoni per correre in aiuto di Ampio, quando poi lo stesso era già stato sopraffatto dai Boi. Cita Calvetti e mi trova d’accordo: “Si è visto che la maggior parte dell’odierna Romagna era stata occupata da Senoni e Lingoni. Le posizioni dei Boi, accentrati attorno a Modena e a Bologna, in pianura non dovevano superare, a oriente, il territorio imolese. Le tracce di limitate centuriazioni romane in pianura, a destra e a sinistra del Savio fino a Forlimpopoli, databili al III sec., dimostrano che, oltre l’avamposto di Rimini, si era giunti a un pacifico “modus vivendi” tra gli autoctoni ed i coloni latini. Dato che il Montone (Utis) come dice Livio, segnava il confine tra Senoni e Lingoni, la colonna di Ampio avrebbe saccheggiato anche le terre dei Senoni. Stando così le cose, il saccheggio ordinato dal console Publio Elio, criticabile se promosso contro i Boi, a maggior ragione lo sarebbe stato se rivolto contro i Senoni. I moventi, se non le ragioni, di tale comportamento nondimeno erano assai chiari, se si considera che la spedizione forse era stata ispirata e per certo era calorosamente appoggiata dagli Umbri-Sapini, ai quali premeva espellere i Celti – Boi, Lingoni, Senoni – dalle terre in cui aspiravano di insediarsi; anzi, di ritornare”. L’iniziativa di Ampio creò malumore presso le tribù celtiche della Valle Padana che la consideravano un tradimento ai precedenti patti di non belligeranza, oltre ad una provocazione che portava i galli a pensare che prima o poi i romani avrebbero attaccato tutti i “residui” di tribù galliche ancora stanziate sotto il Po e quindi non si poteva fare affidamento sugli impegni presi dal senato di Roma. Ci fu quindi una sollevazione celtica che portò al saccheggio di Piacenza ed all’assedio di Cremona, le due principali roccaforti romane nell’Italia del nord. Fu immediata la reazione del Senato romano che ordinò alle truppe di stanza ad Arezzo e Rimini di marciare verso Cremona in aiuto degli assediati. Il comando fu dato al console Purpurione che, nel 199, sconfisse Insubri e Boi, liberando Cremona. Il senato era preoccupato dalle continue sollevazioni dei popoli della cispadania e decise di, nel 197 di inviare, quattro legioni comandate dai consoli Cornelio Cetego e Quinto Minucio, nei territori gallici per reprimere le sollevazioni. I consoli romani sconfissero gli Insubri e fecero un patto di non belligeranza con i Cenomani. Rimanevano i Boi che ritiratisi nei loro territori, pur stanchi di combattere non volevano scendere a patti con i romani, dei quali non si fidavano, visti pure i precedenti. Ma il problema dei romani era quello dei collegamenti fra Rimini e Piacenza poiché bisognava attraversare i territori dei Boi. Da Nord e da Sud, i Romani iniziarono a saccheggiare le terre dei Boi che lasciavano fare per non dover subire altre perdite. Livio cita (XXXV-4) il saccheggio, portato a termina dal console Merula, in questo modo: “ … l’altro console, Lucio Cornelio Merula, condusse le sue truppe nel territorio dei Boi, tenendosi sul confine estremo delle terre dei Liguri … Il Console schierava spesso i suoi a battaglia, ma i nemici rifiutavano lo scontro e i romani, poiché nessuno cercava di fermarli, si spingevano con le loro scorrerie, in ogni direzione; … Quando giudicò di aver messo tutto a ferro e fuoco, il console ritirò i suoi dal territorio nemico, conducendoli a Modena, senza prendere particolari precauzioni durante la marcia … I Boi quando si resero conto che il nemico era uscito dalle loro terre, presero ad inseguirlo con marcia silenziosa, cercando un luogo adatto a tendere un agguato: una notte oltrepassarono gli accampamenti romani andando ad attestarsi su una gola per la quale i romani dovevano per forza passare. Il console … muovendosi di giorno, mandò in avanscoperta uno squadrone di cavalleria: quando gli fu riferito quanto numerosi erano i nemici e dove si trovavano, ordinò di radunare le salmerie in un solo punto e difenderle con un vallo e schierando i soldati a battaglia si avvicinò al nemico … Quel giorno furono massacrati 14.000 Boi, ne furono catturati vivi 1.092, assieme a 720 cavalieri, 3 loro comandanti 212 insegne militari e 63 carri”. Questa tremenda decimazione di Boi, databile al 196, portò nello stesso anno alla resa di Bologna. Così piano piano, fino al 192, i Romani diedero battaglia ai galli cispadani che in ogni parte furono sconfitti. I galli diventano Romani Da questo momento i Celti rimasti si sottomisero al potere di Roma, non vennero più chiamati galli, ma inseriti fra la popolazione autoctona che rimase ben divisa dai coloni romani. La potenza di Roma si riaffermerà e come un secolo prima sarà ripristinata la Lex Flaminia con l’elargizione di terreni, alle famiglie dei coloni romani, nelle zone di Bologna, Modena e Parma. Per favorire i collegamenti fra la colonia di Rimini e quella di Piacenza, nell’anno 187, il console Marco Emilio Lepido iniziò la costruzione di una strada che prenderà il nome di via Emilia. Si svilupparono gli scambi e ci fu più libertà nel commercio stante il fatto che ormai era impossibile qualsiasi razzia poiché il territorio era completamente controllato dall’esercito romano. A parte Rimini e Ravenna (Classe) furono fondate altre colonie con il nome di “forum” che stava ad indicare un luogo di mercato: Forum Popilii (Forlimpopoli), Forum Livii (Forlì), Forum Cornelii (Imola). Nel 122 Caio Sempronio Gracco, rieletto tribuno della plebe, propone di estendere la cittadinanza romana agli italici, senza però ottenere esito positivo. E’ poi un altro tribuno della plebe, Livio Druso, che nel 91, propone l’estensione della cittadinanza romana agli alleati italici, ma viene assassinato da ignoti sicari. Ha così inizio la guerra sociale tra Roma e gli alleati italici (i socii) che chiedevano parità di diritti. Dopo tre anni di guerre con numerose sconfitte romane, nel 89, Roma concede la cittadinanza romana a tutte le popolazioni della cispadania che comprendeva pure Ravenna, Bologna e Piacenza, senza distinzione di origine. Inizia così un momento di pace fra le popolazioni italiche. Il nostro territorio fu poi “protagonista” di un altro evento storico importante, quando nel 49 Giulio Cesare non accetta l’intimazione del senato di sciogliere il suo esercito e varca il Rubicone (13 gennaio) considerato il confine settentrionale dell’Italia. Ci fu poi una radicale organizzazione delle colonie nelle cosiddette “Regio” ed i territori cispadani fra l’Adriatico, il Po e l’Appennino furono assegnati alla Legio VIII. Si può quindi dire che, circa dal I° sec. a.C. si ha un’unione delle popolazioni della cispadania con quelle dell’Italia centrale, ed un inizio, almeno per altri tre secoli, ad una lingua comune (il latino) seppur presenti in tutte le zone i diversi idiomi nati da una miscela di altre lingue precedenti. La base però della maggior parte degli idiomi deve essere riferita all’etrusco che si è celtizzato nelle nostre zone per la presenza gallica durata circa 5 sec.. Questi idiomi si latinizzarono per altri 4 sec., ma ognuno con le proprie differenze di base. Se si nota, anche oggi, i diversi dialetti della Valle Padana, sono identificabili territorialmente in quelle aree già occupate dai Celti. Non per nulla questi dialetti sono stati catalogati e chiamati gallo-italici. Con l’1 d.C. Inizia l’era moderna, ma in base ai calcoli del monaco Dionigi il Piccolo, la nascita di Cristo sarebbe avvenuta quattro anni prima. Per me questa è storia moderna che supera il I° millennio a.C. e quindi esaurisce questo mio breve elaborato. (Ugo Cortesi)
45 preporuka/e lokalaca
Forli
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Premessa Da un po’ di tempo mi interesso di storia e costumi della Romagna, in modo molto fai da te e quindi da dilettante. In particolare mi piace ricercare elementi di storia antecedente l’era moderna poiché di scritti, ricerche ed altre opere, narranti il periodo che inizia dall’anno zero fini ai nostri giorni ce ne sono a centinaia. In questi primi anni del terzo millennio è balzata d’attualità la “questione” Romagna. La Romagna deve essere regione distinta dall’Emilia oppure no? Sull’argomento si scontrano due posizioni quelli del SI e quelli del NO. Non nego che la mia posizione è fermamente a favore della Romagna, sia perché la popolazione avrebbe notevoli benefici, sia perché il vero federalismo si basa sul “controllo” dei piccoli territori e la Svizzera ce lo insegna. Non entro nell’argomento del Si o del No, ma considerato che, alcuni oppositori della Romagna cercano o tentano di svilirne l’identità culturale e soprattutto la sua storia, mi accingo a scrivere un qualcosa che non ha la pretesa dell’esaustività e tantomeno del “verbo”. Alcuni pseudostorici hanno detto che la Romagna è una invenzione nata poco prima dell’Unità d’Italia, con argomentazioni che lo storico quanto tale mai si sognerebbe di fare. Altri, individuabili fra i politici d’assalto, che non riescono a togliere un ragno da un buco (solo perché non riconoscono quale sia il buco e quale il ragno) asseriscono addirittura che la Romagna non esiste e non è mai esistita perché mai è stata determinata nei suoi confini. Roba da neurodeliri! Quando si cerca di produrre una rappresentazione storica, ci si riferisce ai documenti disponibili, ma si cerca pure di contribuire con un qualcosa di proprio ed io cerco di dare il mio contributo nel migliore dei modi. Nelle affermazioni o nelle mie tesi mi limiterò nell’indicare autori e testi, che poi sono i soliti, anche perché si creerebbe confusione fra i lettori. Si pensi poi che uno “studioso” di quelli che insegnano all’Università, durante una serata culturale dedicata alla Romagna, mi ha contestato affermazioni di Tito Livio perché, secondo lui non è credibile. Come se a quei tempi gli storici o i cronisti fossero centinaia. Comunque, mi sono servito a parte di Tito Livio, Erodoto, Polibio, Dionigi di Alicarnasso, Plutarco, Strabone, Diodoro Siculo, Plinio il vecchio ed altri che ho letto o che ho desunto da altri testi, anche di molti altri scritti e ricerche, quali quelle della Società di Studi Ravennati, di Mario Pierpaoli, di Arnaldo Roncuzzi, di Anselmo Calvetti, di Giuseppe Cortesi di Jacques Eurgon, di Andrea Palmucci, oltre a diverse enciclopedie. Non ritenendomi uno studioso, ma uno studente attempato, cercherò di essere il più chiaro possibile in questo compito che desidero sia recepibile da tutti, specialmente dai giovani. Non ricordo chi asseriva che: “per organizzare il proprio futuro è necessario conoscere le proprie origini e la storia del proprio passato”. Quindi: Un popolo che non conosce la propria storia è un popolo che non avrà futuro. Quando viene a mancare la conoscenza delle proprie radici qualsiasi individuo non ha alcun coinvolgimento emotivo e tantomeno interesse nell’essere se stesso. Anche colui che pur sapendo, rinnega o vende le fondamenta create dai suoi avi, non è degno di proclamarsi erede della sua stirpe. La storia non è acqua passata, come molti vogliono farci credere, ma è il passato, che è cosa ben diversa. Forse i miei argomenti saranno sconfusionati o confusionati, come meglio li vorrete interpretare, ma in ogni caso sappiate che mai ho pensato di affermare cose non veritiere, ma semmai dettate dal mio pensiero, basandomi sullo “sgond a me” (secondo me) già coniato dall’amico Avv. Riccardo Chiesa, romagnolista DOC. Intendo fare questa mia esercitazione come un grande ripasso di storia, che inizia dal XII sec a.C. per arrivare al 51 a.C. data in cui Giulio Cesare sottomise definitivamente i pochi nuclei di galliitalici rimasti nella cispadania, indicando gli accomunamenti dell’attuale Romagna con i tempi d’allora e facendo quindi trarre le conclusioni al lettore. Mi riferirò al territorio dell’Emilia e della Romagna, con particolare riguardo alla bassa in cui abito e di cui conosco maggiori particolari. Tutte le date che di seguito riporterò, salvo diversa indicazione, devono intendersi avanti Cristo. I LUOGHI E LA GENTE Già dalla preistoria si manifesta una linea di demarcazione fra due differenti aree geografiche e culturali. Il fiume Panaro ne evidenzia lo spartiacque e cioè nella parte nord quella che viene chiamata la civiltà delle terramare, con abitati protetti da arginature di terra, con capanne su palafitte e cosa importante, dal punto di vista dello studio, la cremazione dei morti. Nell’altra area geografica a sud e ad est del Panaro troviamo la civiltà villanoviana (nome derivante da ritrovamenti a Villanova di Castenaso) con una maggiore urbanizzazione mista su terra e palafitta e con due differenti culti dei morti, sia la cremazione (con la posa delle ceneri in urne di terracotta a forma di doppio cono, deposte nelle tombe insieme con oggetti personali del defunto), che l’inumazione. Da precisare che il Panaro rappresenta una antica linea geografica ed anche geofisica, ma non necessariamente la linea di delimitazione dei territori emiliani e romagnoli, come poi indicherò di seguito. Un insediamento villanoviano, con il passaggio della lavorazione dalla selce al bronzo poi al ferro, lo abbiamo trovato, durante scavi organizzati da una associazione amatoriale, di cui anche io facevo parte, guidata dal compianto Signor Marino Marini, nei primi anni del 1980 nei pressi di Longastrino di Argenta nella zona chiamata Bocca Grande che, in epoca villanoviana e fino ai primi secoli della nostra era, rappresentava la foce del ramo maggiore del Po. Già dal V sec. a.C., troviamo nelle nostre zone una mescolanza di quattro tipi di popolazioni. Quella autoctona rappresentata dai padusi-villanoviani, gli spineti, gli etruschi ed i celti. Quattro popolazioni con lingue e costumi diversi, ma che vivevano in un unico territorio. Si tratta forse di una delle prime importanti integrazioni, cui ne seguiranno altre, come vedremo in seguito. Mi soffermerò in particolar modo ad illustrare seppur succintamente, gli Spineti, gli Etruschi ed i Celti con la derivazione dei Galli. Delle prime due popolazioni (etruschi e spineti), sino ad oggi non si hanno molte informazioni se non sulla scorta dei pochi rinvenimenti, anche perché, a differenza di altre antiche popolazioni (sumeri, fenici, egiziani e greci) non ci sono pervenute tavole “informative” od altre forme di incunaboli. Anche le loro origini non sono certe ad hanno caratteri a volte leggendari ed a volte fantastici. Dei Celti, invece, si ha una maggior documentazione informativa. Di certo è che la prima civiltà villanoviana si è fusa principalmente con la cultura etrusca e celtica, poi successivamente con quella romana, sviluppando l’identità che oggi è propria dei romagnoli. Nel presente lavoro ho cercato il miglior approfondimento possibile e certamente in seguito sarà oggetto di aggiunte e modifiche, ritenendo questo scritto un punto di partenza e non di arrivo. Gli Spineti Sulla storia e vita di questa popolazione ci sono due scuole di pensiero. La prima li definisce etruschi abitanti della città di Spina, fondata dagli stessi. Per diverse ragioni questa tesi è difficile da sostenere, se non indicare il fatto che gli etruschi occuparono la città di Spina in due momenti, nel X e nel VI sec. a.C. L’altra scuola di pensiero, la più plausibile, si riferisce pure sui pochi ritrovamenti, che hanno messo in luce i modi di vita delle persone ed anche le loro caratteristiche fisiche. Questa scuola vuole che Spina sia stata fondata dai Pelasgi, antica popolazione originariamente non greca, presente in Grecia e nelle isole dell'Egeo già nel II millennio a.C. e migrata anche in varie regioni ed in particolare nella Samotracia, centro del culto religioso dei Cabiri, culto che poi troveremo pure presso gli Spineti. Alcuni sostengono anche che una piccola parte di Pelasgi seguì l’emigrazione lidica, sulle coste della Toscana, dando poi vita alla popolazione etrusca. Sta di fatto che Spina mantenne sempre strettissimi legami con la Grecia ed in particolare con l’Attica che secondo la leggenda era divisa in 12 villaggi pelasgici. Dalle necropoli di Val Pega e di valle Trebba si è potuto rilevare il passaggio culturale di questo popolo che per un certo periodo cremava i morti (primo periodopelasgico) poi successivamente (periodo etrusco) li inumava. Anche i corredi funerari, composti soprattutto di recipienti in ceramica, delineano le due epoche con la presenza di ceramica attica con figure rosse, pregevole e ben lavorata ed altra ceramica etrusca colorata in nero o solamente cotta. Qualche manufatto in bronzo attesta l’occupazione di Spina da parte degli Etruschi. Certamente la stessa Spina può essere divisa in due periodi, la prima Spina e cioè quella fondata dai Pelasgi e la seconda Spina, dopo la seconda occupazione etrusca. Dionigi di Alicarnasso ci dice che Spina fu fondata circa nel 1514 a.C. dopo il diluvio di Deucalione, quando i Greci dall’Epiro salparono alla volta di Saturnia (Italia) per sbarcare alla foce del Po, in quella zona che poi fu chiamata “spinetica”. Sempre Dionigi ci dice che i Pelasgi per la loro sicurezza si ritirarono tra i luoghi bassi e paludosi del mare, andando a popolare le isolette che si erano rese scoperte qua e là tra le paludi padane. Il declino della Spina occupata dagli Etruschi inizia dal III sec. a.C. col cominciare del declino degli stessi Etruschi e con l’assedio dei Galli. Gli Etruschi Da dove venivano? Ci sono anche per loro due diverse scuole di pensiero. La prima, che secondo me è la più credibile, ritiene che gli Etruschi siano di origine illiricoellenica, trasferitisi sulle coste delle attuali Toscana e Marche in diversi tempi e da diverse zone. I primi probabilmente furono i lidi, dopo una grande carestia che, nel XIII sec. a.C. aveva colpito la Lidia, stabilendosi poi oltre che nelle zone indicate pure in Sardegna. La Lidia era regione dell'Asia Minore sul mar Egeo, confinava con la Misia, la Caria e la Frigia. La sua capitale si chiamava Sardi. Da questo deriva il nome “Sardinia” (Sardegna) terra del popolo di Sardi. Nel medesimo tempo (più o meno) anche una gran parte degli Illiri emigrarono sulle coste settentrionali dell’Adriatico. L’Illiria era una antica regione che occupava la parte occidentale della penisola balcanica, dal Danubio all'Epiro. Si trattava di un popolo indoeuropeo che comprendeva quei Dalmati e Pannoni che successivamente diventarono pur essi Celti. Già queste popolazioni, una balcanica e l’altra greca, mischiate alle altre autoctone, avevano necessità di colloquiare fra di loro e quindi coniarono un nuovo idioma; un misto di dialetti i più disparati, che costituirono poi quello che venne chiamato Etrusco, ancora oggi per la maggior parte sconosciuto. Da queste popolazioni nacquero pure gli Umbri ed i Piceni. Gli Umbri erano una popolazione compresa fra in Tevere e l’Adriatico che parlava una lingua chiamata osco-umbro, dove osco sta per Etrusco. A seguito poi (circa VI sec. a.C.) dell’espansione etrusca da ovest, sannitica da sud e gallica da nord, gli Umbri si collocarono nella zona corrispondente all’attuale regione Umbria. I Piceni, anche loro di origine villanoviana, abitavano la regione compresa fra gli Appennini e l’Adriatico delimitata dei fiumi Esino e Salino. Fu circa nell’XI sec. a.C. che conobbero l’influenza culturale etrusca e balcanica. La seconda scuola di pensiero ritiene che gli Etruschi siano una popolazione indigena del centro Italia che abitava appunto la Tuscia e le zone limitrofe (attuale Toscana). Potrebbe anche essere, ma è difficile poter pensare e quindi riuscire a capire la complessità della cultura e degli usi, nonché i diversi modi di vita quotidiana, anche a distanza di pochi chilometri, di questa popolazione. Ciò potrebbe essere se la popolazione si fosse colà formata fin dal Neolitico, ma è cosa molto difficile ed ardua da sostenere. I Celti I Celti (keltoi) è il ceppo di quella popolazione che successivamente fu chiamata “galli” (galati). Tribù celtiche di piccole dimensioni erano già presenti nel nord dell’Italia già dal 700 a.C. ed avevano portato le prime conoscenze dell’età del ferro e successivamente nel V sec. la pratica della “pompa magna” nelle sepolture oltre alla fortificazione dei villaggi, che venivano invasi da altre popolazioni scese dal nord Europa. In questo periodo si ebbe la maggior migrazione pacifica dei popoli celto-gallici, dall’attuale Francia, verso la Lombardia, venezie e terre etrusche. Le prime grandi invasioni di tribù galliche avvennero invece a partire dal V sec. e successivamente con la presa, nel 400 a.C., di Mediolanum (Milano) da parte degli “Insubri”, di Brescia da parte dei “Cenomani”, di Bologna da parte dei “Boi” e della nostra zona, fino alle Marche, da parte dei Senoni. I galli Senoni e Boi si stanziarono principalmente nella zona a sud-est della pianura padana fino ai territori dei Piceni. Ci fu per circa tre secoli un andirivieni di tribù galliche che si mescolano alla popolazione locale già formata dalle precedenti mescolanze di villanoviani, Etruschi, Spineti e primi Celti. Iniziarono dal IV sec. a.C. i contatti fra i Galli ed i Romani quasi esclusivamente caratterizzati da ostilità. Si trattava di due popoli che cercavano la preminenza del controllo. In un primo momento furono favoriti i Galli (dal 390 al 283 a.C.) e successivamente i Romani cominciarono le campagne militari, sconfiggendo e ricacciando per circa un secolo le tribù galliche nei loro territori originari. La storia romano-gallica si conclude con la sottomissione, nel 51 a.C. ad opera di Giulio Cesare, dei Galli non solo italici, ma anche galli-celtici nei loro territori del Nord Europa. I Boi furono la tribù celtica più numerosa e potente, si spinsero pure in Boemia (che appunto vuol dire terra dei Boi) ed in Pannonia dove avevano fatto una coalizione con le tribù celtiche degli Aravisci e dei Breuci. Cambieranno il nome etrusco di Felsina (Bologna) in quello gallico di Bononia, lo stesso nome dell’altra Bononia, l’attuale Vidin, città della Bulgaria al confine con la Romania, quindi nell’antica Pannonia occupata dai Boi. Secondo Strabone, i Galli avevano la passione per la guerra, erano irascibili e se venivano stuzzicati si buttavano nella mischia. Non venivano facilmente a compromessi e rimanevano fermi sulle loro decisioni. Si associavano sempre all’indignazione di chiunque sembrasse loro, vittima di una ingiustizia. Tito Livio dice dei Senoni: “… gente per istinto portata a inutili schiamazzi … di canti selvaggi e di urli strani ...”. Altri tribù galliche che si stanziarono nell’Italia del nord furono: i Biturigi, gli Arveni, gli Edui, gli Ambarri, i Carnuti, gli Aulirci, i Libui, i Salluvi e diverse altre tribù minori. Storia geografica 7.000 anni or sono (circa) finiva la glaciazione della bassa Europa e con essa si identificava e prendeva forma il litorale marino dell’alto Adriatico. Mentre la costa a sud di Numana non subiva variazioni, quella a nord fino a Venezia ha subito moltissimi cambiamenti nei secoli, come continua a subirli oggi e li subirà in futuro, con un processo di ritorno, a causa della subsidenza. Si può stabilire che nel 3.500 a.C. la battigia romagnola da Pesaro a Ravenna fosse all’incirca dove si trova oggi la statale 16 Adriatica per proseguire poi con una linea semiellittica da Sant’Alberto, Spina, Adria e Chioggia, mentre sulla linea a sud di Ravenna il terreno era “consolidato” e la zona a nord, per la presenza delle foci del fiume Po, era pressoché paludosa. Si data poi circa a quegli anni una grande inondazione (altri la chiamano diluvio) che colpì la valle padana, cancellando ogni segno di vita umana. A quei tempi le popolazioni cercavano zone da abitare dove fosse più facile cacciare e pescare, l’attuale Romagna si prestava molto bene a questo sia per le grandi aree boschive che per le zone acquatiche. In un millennio il territorio si ripopolò e si formarono le prime comunità villanoviane. Basti pensare che nel sottosuolo di Ravenna a circa 7,5 m dall’attuale livello del mare sono state ritrovate pavimentazioni palafitticole databili a circa il 2.300 a.C.. A quel tempo la foce maggiore del Po si trovava nella Valle del Mantello di Longastrino nella zona che fu poi chiamata Boccagrande del Po e che ancora oggi porta questo nome. Intanto lo sbocco del Po, per apporto di sedimenti si stava ostruendo, creando qualche miglio più a nord una nuova foce chiamata Spineta o Po Spinetico e successivamente Eridano. La foce si trovava dove fu poi costruita la Città di Spina, nei pressi di Comacchio. Da allora l’innalzamento del terreno fino a circa l’anno 1.000 della nostra era è stato abbastanza costante con l’apporto di detriti dei fiumi alpini ed appendici che sfociano in Adriatico, in massima parte dal Po. LA STORIA Per quanto riguarda il nostro territorio si sono scritte tante cose, a volte anche a sproposito, e tante ancora se ne scriveranno. Sull’argomento, molto importante dal punto di vista delle nostre origini, è stata la Selva Litana, per la sua geografia ed anche quale riferimento ad una delle battaglie più cruente fra Galli e Romani, dove i Romani conobbero una delle più grandi sconfitte della storia. Citazioni precise sulla battaglia della Selva Litana le troviamo inizialmente nella “Storia di Roma” di Tito Livio per arrivare ai giorni nostri con un buon dettaglio da parte di scrittori locali fra i quali Anselmo Calvetti, Mario Pierpaoli, Arnaldo Roncuzzi e qualcun altro. Preambolo L’anno 753 a.C. (21 aprile) è considerato la data tradizionale della fondazione di Roma. Da questa ebbe inizio la cronologia della storia romana con i governi dei sette Re, i primi quattro Romani e Sabini, gli ultimi tre Etruschi. La dinastia Etrusca in Roma iniziò nel 616 quando Tarquinio Prisco successe ad Anco Marzio. In questo periodo, a parte alcuni scontri di poca importanza fra Etruschi e Romani, la spaccatura avvenne nel 509 quando i Romani cacciarono Tarquinio il Superbo ed ancor più quando, nel 506, i Latini sconfissero Porsenna, re etrusco di Chiusi, segnando il declino della supremazia etrusca nel Lazio. Nel VII sec. a.C. per la seconda volta gli Etruschi conquistarono la città di Spina che era uno dei maggiori porti dell’Adriatico situato alla foce dell’antico Po, appunto chiamato Spinetico. Gli Etruschi consolidarono il loro dominio nella bassa Padania occupando la linea che andava da Marzabotto – Felsina – Spina, spingendosi in altri siti del nord Italia. I primi gruppi celtici del nord Europa entrarono in Italia nel VII sec. stanziandosi nel Piemonte, nella zona prealpina della Lombardia e del Vicentino. Gli Etruschi impauriti da queste occupazioni, ma anche sollecitati dalle popolazioni occupate, mossero verso nord e si scontrano con i Celti nella prima battaglia del Ticino (da non confondersi con la seconda battaglia del Ticino del 218). Questa fu la prima grande vera battaglia di cui si abbia notizia fra popolazione locale e Celti, peraltro senza aver conoscenza di una data precisa che può indicarsi all’incirca nel 650 a.C. Nel VI sec. a.C. anche le popolazioni celtiche dell’attuale Francia e Germania, iniziarono le conquiste oltre i loro confini. L’attuale Romagna allora era abitata da autoctoni che nei secoli si erano mescolati prima con i Pelasgi (Spineti) e successivamente con gli Etruschi. Era una popolazione tipicamente dedita all’agricoltura ed all’allevamento del bestiame nella parte di territorio che dianzi ho indicato come “asciutta” e dedita alla caccia ed alla pesca nella parte che ho indicato come “umida”. All’arrivo nelle nostre zone di galli Boi (dal Secchia al Sillaro), galli Lingoni (dal Sillaro all’Utis) e di galli Senoni (dall’Utis all’Esino) le popolazioni autoctone dovettero adeguarsi agli usi dei nuovi arrivati se non altro perché questi ultimi ragionavano a fil di spada. Il fiume Utis è stato individuato dagli storici come il Montone, ma in effetti il limite fu il Sinnium (Senio) che voleva appunto indicare la linea dei Senoni. Nel giro di un secolo le diverse etnie si integrarono fra di loro a seguito dei matrimoni misti, quindi la popolazione diventa un misto di razze (autoctona+spineta+etrusca+celta) come poi si modificherà dopo il II sec. a.C. con la venuta dei Romani. Si può dire che il ceppo dei romagnoli di oggi non è altro che la mescolanza di 5 popoli. Dal 450 al 400 a.C. le ultime roccaforti Etrusche di Spina, Ravenna e Rimini caddero sotto la potenza celtica di Boi e Senoni. Sebbene ambedue popoli “barbari”, i Boi e Senoni mantenevano una vera e propria divisione se non per una ragione di interesse territoriale anche per mentalità, culture e tradizioni diverse, in quanto i Boi erano originari della valle del Reno (tedeschi) ed i Senoni della valle della Senna (francesi). Sarebbe come dire che, fra Emiliani (Boi) e Romagnoli (Senoni) c’è sempre stata un po’ di ruggine. In verità c’è da dire che i Boi accorsero in difesa dei Senoni quando questi ultimi furono attaccati dai Romani, ma ne parlerò di seguito riferendomi alla Selva Litana. Fra questi due facevano da cuscinetto i Galli Lingoni originari delle vallate della Marna che scende dall’altopiano di Langres per immettersi nella Senna. La battaglia di Allia Nel 390, i Senoni, comandati da Brenno, dopo aver sconfitto l’esercito romano, saccheggiarono Roma. Ma perché successe questo? I Senoni mai si sarebbero permessi di attaccare l’esercito romano che era molto più forte sia in uomini che in mezzi. L’intenzione dei Senoni era invece quella di occupare le terre dell’Italia centrale appartenenti agli Etruschi, approfittando del fatto che la maggior parte dell’esercito etrusco era salito al nord per contrastare la continua calata di galli. I Senoni decisero quindi di occupare le terre a sud-ovest di Sena Gallica (Senigallia) fino al lago Trasimeno. Assediarono la città di Camars (Chiusi) che chiese l’aiuto dei Romani con i quali avevano buoni rapporti di vicinato ed interessi commerciali. Il senato romano inviò a Chiusi alcuni legati per tentare una via diplomatica con l’invito ai senoni a desistere dall’assedio e prendere contatti con Roma per risolvere la cosa pacificamente. I Senoni dopo un’assemblea popolare risposero che, visto che i romani non erano scesi in armi e volevano risolvere pacificamente la contesa, avrebbero accettato la pace in cambio della cessione da parte di Chiusi di un ampio territorio da poter coltivare. Uno dei legati romani, mentre gli altri erano partiti per portare la proposta dei Senoni al senato romano, organizzò la popolazione di Chiusi alla difesa, ruppe le trattative ed uccise un capo dei Senoni. Ciò è quanto riporta Tito Livio. I Senoni decisero di abbandonare l’assedio di Chiusi e di marciare su Roma, dopo aver chiesto al senato romano la consegna del legato che aveva violato la tregua, ottenendo però una risposta negativa. I Romani furono quindi travolti dai Senoni e sconfitti nella battaglia del fiume Allia (oggi fosso di Bettina) che sfocia nel Tevere a 18 km a nord di Roma. Su questo evento Tito Livio presenta una sua versione dei fatti e cioè che i Senoni entrassero a Roma senza alcun scontro armato perché l’esercito romano fu terrorizzato e messo in fuga dal grido di guerra dei Senoni. Polibio cita, invece, che ci fu ad Allia una cruenta battaglia dove una parte dell’esercito romano fuggì rifugiandosi a Vejo, mentre l’altra parte si disperse e gli ufficiali ed i senatori si rifugiarono nella rocca del Campidoglio. Dopo una settimana di assedio, Brenno, convinse i Romani a trattare il riscatto della città. La città fu riscattata e fra Senoni e Romani fu firmata una tregua di trent’anni. Secondo Polibio invece, Brenno fu costretto ad abbandonare Roma per accorrere in aiuto alle altre truppe dei Senoni stanziate al nord che erano state attaccate dai Veneti. Cosa alquanto improbabile poiché risulta veritiera la firma della tregua per trent’anni. Nel caso che i Senoni fossero fuggiti da Roma, certamente i Romani non gli avrebbero dato tregua, ma avrebbero dato man forte ai Veneti. La battaglia di Sentino Passati 5 anni dalla fine della tregua e cioè nel 295 a.C. i Romani, che non avevano dimenticato il torto subito, intenzionati a dare una sonora lezione ai Senoni, decisero di occupare i territori del litorale adriatico. I Senoni venuti a conoscenza delle intenzioni, strinsero un’alleanza con i Sanniti, acerrimi nemici di Roma, e mossero contro l’esercito romano che sconfissero a Camerino. Il senato romano però non si scoraggiò, sempre più meditando vendetta e riorganizzò un nuovo esercito con due comandanti, il primo il console Decio Mure che a Sentino (oggi Sassoferrato) attaccò i Senoni, dai quali fu sconfitto ed il secondo, il console Fabio Rulliano che sempre nelle vicinanze di Sentino attaccò i Sanniti che vennero messi in fuga. Le due ali dell’esercito romano si riunirono ed attaccarono nuovamente i Senoni che furono sconfitti con gravi perdite di uomini e mezzi. Iniziò così la vendetta romana contro i Senoni che nuovamente vennero sconfitti e quasi decimati, nello stesso anno, dal Console Manio Curio Dentato che annesse a Roma i territori dell’Ager Gallicus, da Senigallia a Rimini. Ciò è quanto asserisce Polibio, ma altri storici ritengono che l’annessione a Roma dell’Ager Gallicus riguardasse i territori da Senigallia alla foce del Po ed anche la valle dell’alto Savio compresa la città di Sassina (Sarsina). Una parte dell’esercito dei Senoni scampata a Curio dentato si rifugiò nelle terre dei Lingoni, fra il Senio ed il Sillaro, mentre le famiglie dei non facenti parte all’esercito rimase sul territorio occupato dai romani. Dal 283 a.C. iniziò un periodo di pace, salvo qualche scaramuccia, fra i romani e le tribù galliche della valle padana. Questa tregua terminò quando nel 238 a.C. i galli Boi diedero inizio agli scontri con i romani per occupare la città di Rimini, che i romani avevano tolto ai Senoni 45 anni prima. Più volte Rimini fu assediata dai Boi con l’aiuto di ciò che restava dei Senoni che si erano rifugiati nella Selva Litana e ciò indusse i Romani a rafforzare le difese della città. La Lex Flaminia Nel 232 a.C. il console Caio Flaminio, tribuno della plebe, fece approvare una legge per l’assegnazione alle famiglie romane delle terre conquistate ai Senoni. Questa legge fu chiamata la “Lex Flaminia” che trasformò l’”Ager Gallicus” in “Ager Publicus”. Iniziarono così le centuriazioni romane da Senigallia fino alla valle del fiume Savio e proseguirono fino al 218 a.C. Questo territorio divenne quindi popolato dagli autoctoni (miscuglio di Spineti, Etruschi e Senoni) dai Romani e da alcuni gruppi di galli Boi che da Bologna erano scesi nel riminese. Oltre al misto di popoli si creò un misto di lingue; genti che fra loro non si comprendevano facilmente poiché non tutti parlavano il latino. Ciò indusse le popolazioni o forse nacque spontaneo un idioma che permettesse a tutti costoro di potersi capire. Ci dice Tito Livio che con la “Lex Flaminia” si consolidò la potenza di Roma che, con i territori annessi diveniva la Magna Roma. A questo punto voglio fare una deduzione, invitando gli storici ad approfondire l’argomento. Tito Livio che parlava latino anteponeva l’aggettivo al sostantivo (Magna Roma) così come i galli Boi originari della valle del Reno, mentre i galli Senoni e le altre tribù originarie del centro e del sud della Francia anteponevano (come del resto lo facevano gli etruschi) il sostantivo all’aggettivo (Roma Magna). A mio avviso anche se non esiste una documentazione specifica, ma solo accenni, il nome Romagna deriva da (Roma Magna) per effetto della Lex Flaminia. Ritorniamo alla storia. Nel frattempo anche in altre parti d’Italia, le popolazioni celtiche cercavano alleanze per poter fronteggiare l’espansione romana che aveva annesso già dal 225, la Toscana, le Marche e la bassa Romagna fino al fiume Senio. I più preoccupati erano i Boi perché poco bastava ai Romani per attraversare il Senio, il Santerno ed il Sillaro per poi occupare i territori del Bolognese e del Modenese ancora in loro mani. Oltretutto il vecchio potente esercito dei Boi si era indebolito dopo la grave sconfitta subita nella battaglia di Telamone (225 a.C.) quando accorsero in aiuto dei Taurisci e degli Insubri che venivano sopraffatti dai Romani. Questi furono gli anni dello scombussolamento delle tribù celtiche. A seguito della sconfitta di Telamone, i Boi trattarono la resa con i Romani nel 224 mentre altre tribù (Anari e Cenomani) si allearono con gli stessi Romani e nel 222 sconfissero, a Clastidium (Casteggio), sotto il comando del console Claudio Marcello, gli Insubri occupando Milano. Intanto i pochi Senoni e Lingoni rimasti nel loro enclave non erano disturbati da nessuno come se fossero stati dimenticati in quella selva desolata e valliva. Annibale attraversa le Alpi Nel 220 a.C., i Cartaginesi sotto il comando di Annibale Barca decisero di invadere l’Italia passando da Spagna e Francia, consci però che il grosso dell’esercito romano li avrebbe affrontati nella Pianura Padana. I Romani però, pur ritenendo tatticamente giusto contrastare i cartaginesi nella Pianura Padana, erano preoccupati da una eventuale sollevazione dei Galli che pochi anni prima erano stati soggiogati, ma che sempre erano in fermento. Nel 218 a.C. si ebbe una prima sollevazione di Boi in attesa dell’arrivo dei Cartaginesi che attaccarono i Romani sulle terre appena conquistate. Le legioni romane furono costrette ad asserragliarsi a Tennero, mentre i coloni si rifugiarono a Modena. All’inizio dell’anno i Cartaginesi valicarono le Alpi, ma furono decimati dal freddo e dalla fame si che solamente 30.000 soldati riuscirono a raggiungere la valle padana. I Romani intanto si attestarono su tre linee, la prima fra il Ticino ed il Po, la seconda fra Piacenza e Cremona e la terza fra Piacenza e Modena. Alla battaglia del Ticino, i Romani ebbero la peggio e si ritirarono nella roccaforte di Piacenza. Quando i Cartaginesi giunsero nei pressi di Piacenza, ci fu una defezione dalle fila romane, da parte di alcune migliaia di cavalieri celti (aggregati) che, prima di passare con i Cartaginesi, uccisero molti dei loro ex-commilitoni romani. A questo punto ci fu la sollevazione da parte delle tribù celtiche che abitavano la zona e corsero a dare man forte all’esercito di Annibale. Al fiume Trebbia, Cartaginesi e Celti inflissero una grave sconfitta ai Romani. Dopo questa vittoria si irrobustì l’alleanza fra Cartaginesi e le tribù celtiche che indicavano in Annibale il loro liberatore. Però Annibale non si fidava molto dei Celti, visto il loro precedente comportamento. Annibale calò nel centro e sud dell’Italia infliggendo numerose sconfitte ai Romani; da ricordare le battaglie del Trasimeno e di Canne. Durante queste battaglie, Annibale, per risparmiare i propri uomini, mandò all’attacco i Celti Cisalpini che subirono gravi perdite, si da indurre la gran parte dei superstiti a ritornare nella valle padana. La battaglia della Selva Litana Nell’estate del 216 venne inviato in “Gallia” (indica così Tito Livio, ma deve intendersi nella Gallia Padana) il pretore Lucio Postumio, con l’incarico di debellare definitivamente le bande di Senoni e Lingoni che saccheggiavano i territori dei coloni romani beneficiati dalla Lex Flaminia. Quando i galli Boi seppero che Lucio Postumio aveva intenzione di attaccare quel poco che era rimasto dei Senoni e dei Lingoni, e che la stessa sorte sarebbe poi toccata ad essi, corsero in aiuto di quei loro fratelli con i quali c’era sempre stata nei secoli una certa ruggine. I Romani decisero di attaccare i Galli nel loro stesso territorio, la Selva Litana, ma qui subirono la più grave sconfitta che l’esercito romano avesse mai conosciuto. Cita Livio (XXXII-24): … nova clades nuntiata …“ … fu annunciato un ulteriore disastro, quasi che la fortuna non ne avesse accumulato uno dietro l’altro in quell’annata: il console designato Lucio Postumio era sto ucciso in Gallia assieme a tutti i suoi uomini. C’era un’ampia foresta, Litana è il suo nome gallico, attraverso la quale Lucio Postumio doveva far passare il suo esercito. I Galli avevano provveduto a fessurare gli alberi che si trovano sul ciglio destro e su quello sinistro del sentiero, in maniera che rimanessero ben diritti, ma che, appena li si fosse leggermente toccati, si abbattessero al suolo. Postumio aveva con se due legioni romane e aveva arruolato dalle coste del mare superiore (mare Adriatico) un così numeroso contingente di alleati che era entrato con ben 24.000 uomini nel territorio nemico. I Galli, che si erano appostati al margine estremo della foresta, allorché la colonna romana vi s’inoltrò, diedero delle spinte agli alberi che avevano fessurato per ultimi. E gli alberi crollando gli uni sugli altri, tutti instabili, nessuno che ormai si reggeva sulle sue radici, provocarono grande strage da entrambi i lati della strada travolgendo armi, uomini e cavalli e consentendo la fuga ad appena 10 uomini. Infatti già la maggiore parte era stata uccisa dai tronchi degli alberi e dagli spezzoni di rami; poi la massa dei sopravvissuti, frastornata da quel disastro inatteso, fu sterminata dai Galli appostati tutto intorno al bosco. Di tanti che erano i romani i pochi catturati furono quelli che cercarono di guadagnare un ponte sul fiume, ma si trovarono la strada sbarrata dai nemici che lo avevano precedentemente occupato. Lì fu ucciso Postumio mentre combatteva con ogni sua energia per non essere preso vivo. I Boi in festa portarono al tempio che essi considerano il più sacro, le spoglie del corpo del comandante e il suo capo mozzato …”. Aprendo una parentesi, sembra che la parola “litania” intesa come lamentela prolungata, derivi appunto dai lamenti dei romani feriti sotto il peso degli alberi nella selva Litana. Se si pensa che su 25.000 soldati romani se ne salvarono solo 10 e che la maggior parte, uccisa dai Galli, era rimasta ferita, vuol dire che le uccisioni sono durate diversi giorni durante i quali si udivano gli interminabili lamenti dei poveri soldati romani feriti. Ma dove si trovava la Selva Litana? Ubicazione della Selva Litana Discordi sono i diversi autori sull’ubicazione di detta selva. Attingendo dai vari ricercatori, confrontando vecchie carte, avvalendomi della biblioteca della Casa Matha e documentandomi come meglio ho potuto, mi sono fatto una idea che penso non si discosti molto dalla realtà. Non è per niente facile trovare anche il minimo indizio su località e fatti che datano almeno 2.500 anni. Bisogna cominciare da molto lontano nella ricerca topografica e storica del territorio a nord di Ravenna per poter avere un quadro geografico il più preciso possibile. Basilari sono stati per me gli scritti e gli studi dell’amico Arnaldo Roncuzzi che dal punto di vista storiografico della topografia del delta padano con particolare riferimento alle zone di Comacchio e Ravenna, è senza ombra di dubbio un luminare. Io ho individuato la Selva Litana nel territorio compreso, a nord, fra il vecchio corso del Reno quando entrava in Po nella parte ferrarese, a sud lungo la valle del fiume Ronco, ad ovest all’inizio della pianura appenninica (ipoteticamente l’attuale linea della via Emilia) e ad est fino alle valli adiacenti il mare adriatico che possiamo individuare come linea ultima all’incirca la retta tracciata fra Ravenna ed Adria fino al punto in cui incrociava il Po di Spinete nei pressi di Comacchio. Questa linea era rappresentata da un cordone dunale che delimitava gli antichi lidi adriatici. Parlando di oggi si può perimetrare la selva litana in Bologna, Forlì, Ravenna, Comacchio (Spina), Ferrara, Bologna. Si trattava di oltre 2.500 kmq di territorio più o meno boscoso ed in gran parte, verso la foce del Po, molto paludoso ed acquitrinoso. La linea del mare indicata fra Ravenna e Spina non ha bisogno di approfondimenti se non segnalare che già Strabone, Dionigi d’Alicarnasso, Polibio, Hellanico e Scilace la individuarono in quei pressi più o meno 2 o 3 km da detta linea verso il mare. La zona per le notevoli alluvioni dei fiumi era molto fertile quindi ideale anche per estensioni altamente boschive. Arduo è voler individuare temporalmente la sua formazione, ma la si può fare iniziare dopo l’ultima deglaciazione con inizio a circa 10.000 anni or sono e terminata circa 4.000 anni dopo, quando emerse dalle acque la valle padana. Sappiamo per certo che circa 1.000 anni a.C. i Pelasgi (Spineti) utilizzavano il legname dei boschi per costruire le navi e le palafitte, così come successivamente lo fecero gli Etruschi ed i Celti per arrivare a dati più certi quando nel 391 a.C. i galli Senoni al comando di Brenno saccheggiarono Roma, partendo dalle foreste che davano sull’Adriatico ed in quei boschi si rifugiavano per scampare al nemico. Quel cordone dunale che ho indicato in precedenza ha subito nei secoli diverse modificazioni ed è pensabile che nel III sec. a.C. avesse un percorso semiellittico che andava dall’attuale Classe, Ravenna, Savarna, Argine d’Agosta, Spina, Merozzo, Pomposa, Mesola. Mentre ad est di questa duna sabbiosa e ghiaiosa c’era il mare, ad ovest c’erano valli salmastre che partendo ad ovest di Classe, sempre con un percorso semiellittico, erano delimitate all’incirca all’attuale San Michele, Villanova di Bagnacavallo, Lavezzola, Ostellato e Codigoro. Questo a grandi linee, ma rimando per un maggior e dettagliato approfondimento, a chi interessa, alla lettura del documento redatto da Lelio Veggi ed Arnaldo Roncuzzi: “Studi idrogeologici dei territori padani inferiori” – Atti della Casa Matha – quaderno IV – anno 1970. In mezzo a queste valli, non molto profonde, c’erano diverse terre emerse che venivano loro stesse chiamate “valli” in parte coltivabili solo in alcuni periodi stagionali, erano quindi abitate e pur subendo le alluvioni di piena, erano abbastanza sicure. Di queste isole le più importanti nella nostra zona erano l’isola sabbionara, poi diventata nei secoli, la Contrada Grossa e successivamente Le Alfonsine e l’isola del pereo poi diventata Il Pereo e successivamente Sant’Alberto. Abbiamo così delimitato la selva litana sia nella parte “asciutta” che “umida”. Calvetti indica il luogo, fra il Ronco - Bidente ed il Santerno. Cita poi lo storico G.F. Rambelli nelle sue “Memorie Storiche dell’Alfonsine”: “La Selva Litana poi che occupò tanti de’ luoghi i quali la Padusa ritiratesi lasciava asciutti, si stese su quella parte del territorio alfonsinate che rimase all’acque discoperto”. Ed il Melandri nelle “Notizie storiche di Fusignano” riprende il Muratori: “Chi credere non può che la Selva Litana ingombrasse non poco di quel territorio tra la via Emilia ed il Po, vale a dire di Cottignola, Lugo, Fusignano, Bagnacavallo, Alfonsine ecc.” . A questo punto c’è una considerazione da fare. Quando Livio dice “ … I Boi in festa portarono al tempio che essi considerano il più sacro …” doveva trattarsi di un luogo molto importante per i galli. A mio avviso si trattava della selva di pianura un cui luogo principale e maggiormente popolato era “Lugh” (attuale Lugo di Romagna) di origine etrusca e successivamente abitato dai Senoni i quali avevano nominato questo luogo con il nome del loro dio “Lugh”. Sia gli Etruschi che i Celti consideravano le selve ed i boschi, luoghi sacri e mettevano a loro difesa e controllo un centro abitato con il nome di un dio. Anche Litana era il nome della dea celtica dei morti. Può essere che questo nome sia stato dato alla selva successivamente alla battaglia per indicare che in quel luogo ci furono tanti morti. Altri nomi di dei celtici li troviamo nell’attuale toponomastica locale come l’antica Valle Dana fra Fusignano ed Alfonsine. Dana era la dea celtica della caccia che poi era la stessa dea Diana per i Romani. Sembra che pure per gli Etruschi la dea della caccia fosse anch’essa Dana. Quindi può essere che i Celti si siano appropriati e tramandati il nome della dea etrusca. Curiosità di cultura alimentare dei Litani Indico come Litani, gli abitanti della Selva Litana che come detto in precedenza si estendeva per diverse centinaia di chilometri quadrati. Riprendendo le tre tribù galliche che abitavano detta selva, e la loro collocazione territoriale all’interno della stessa, partendo da sud e cioè: i Senoni fino al fiume Utis (Montone) o al Senio, i Lingoni fino al Sillaro ed i Boi oltre il Sillaro, voglio sottolineare una cultura alimentare ancora presente ai giorni nostri, che delinea uno dei tanti caratteri che da luogo alla identità di un popolo. Dal Ravennate spostandoci verso sud quindi nell’area senonica c’era allora come oggi una tradizione per la carne ovina più che quella suina, per il fatto che i Senoni erano allevatori di pecore. Al nord, dopo il Sillaro, verso Bologna e Modena si preferiva allora come oggi, la carne suina; infatti i Boi allevavano il maiale. Nella zona cuscinetto fra il Montone ed il Sillaro, occupata dai Lingoni, c’era allora come oggi una cultura mista sia per la carne di pecora che per quella del maiale. Non conosco la datazione dell’invenzione dei cappelletti che ritengo un mangiare molto antico, ma anche questi hanno subito la stessa tradizione della carne con una preparazione diversa del ripieno. Nel ravennate in giù, dove c’era la cultura alimentare della pecora, il ripieno è composto di un battuto di solo formaggio. Da Imola in su, dove c’era la cultura alimentare del maiale, i cappelletti prendono il nome di tortellini il cui ripieno è composto esclusivamente di carne. Nel territorio intermedio, che dianzi ho chiamato cuscinetto, dove c’era la cultura alimentare mista della pecora e del maiale (Lavezzola, Conselice, Massalombarda, parte del lughese, ecc.) ci sono zone in cui i cappelletti vengono riempiti con un impasto di formaggio e trito di carne e frattaglie. DAL 216 AL 201 ??? Le notizie non sono tante e quanto pervenutoci è molto confusionato. Di certo nel 216, Annibale sconfigge a Canne i consoli M. Terenzio Varrone e L. Emilio Paolo e nel 207 Asdrubale sceso in Italia per porre aiuto ad Annibale, viene sconfitto ed ucciso dai Romani nella Battaglia del Metauro. La campagna contro i Galli della Val Padana Nel 201 a.C. gli Umbri-Sapini, alleati dei Romani, fecero pressione su questi ultimi per attaccare Boi, Senoni e Lingoni che, a loro dire, facevano scorrerie nei territori a sud del fiume Savio. Ma gli Umbri mentivano poiché il loro solo scopo era quello di riconquistare i territori persi secoli prima per mano etrusca. I Romani caddero nell’inganno ed incaricarono: il prefetto Caio Ampio di marciare contro i galli e scacciarli dai territori a nord di Ravenna fino a Sillaro ed il console Publio Elio di sconfiggere i Boi e scacciarli dai territori dal Sillaro a Modena. Cita Livio che Ampio saccheggiò i territori dei Boi, poi dopo aver disposto i legionari romani per la mietitura del grano, fu sopraffatto, presso Mutilum (Modigliana) e fu ucciso assieme a 7.000 Romani. Non si conoscono le cronache delle battaglie di Publio Elio contro i Senoni, ma si ha il dubbio che esse non siano mai avvenute e che invece Elio abbandonasse i territori dei Senoni per correre in aiuto di Ampio, quando poi lo stesso era già stato sopraffatto dai Boi. Cita Calvetti e mi trova d’accordo: “Si è visto che la maggior parte dell’odierna Romagna era stata occupata da Senoni e Lingoni. Le posizioni dei Boi, accentrati attorno a Modena e a Bologna, in pianura non dovevano superare, a oriente, il territorio imolese. Le tracce di limitate centuriazioni romane in pianura, a destra e a sinistra del Savio fino a Forlimpopoli, databili al III sec., dimostrano che, oltre l’avamposto di Rimini, si era giunti a un pacifico “modus vivendi” tra gli autoctoni ed i coloni latini. Dato che il Montone (Utis) come dice Livio, segnava il confine tra Senoni e Lingoni, la colonna di Ampio avrebbe saccheggiato anche le terre dei Senoni. Stando così le cose, il saccheggio ordinato dal console Publio Elio, criticabile se promosso contro i Boi, a maggior ragione lo sarebbe stato se rivolto contro i Senoni. I moventi, se non le ragioni, di tale comportamento nondimeno erano assai chiari, se si considera che la spedizione forse era stata ispirata e per certo era calorosamente appoggiata dagli Umbri-Sapini, ai quali premeva espellere i Celti – Boi, Lingoni, Senoni – dalle terre in cui aspiravano di insediarsi; anzi, di ritornare”. L’iniziativa di Ampio creò malumore presso le tribù celtiche della Valle Padana che la consideravano un tradimento ai precedenti patti di non belligeranza, oltre ad una provocazione che portava i galli a pensare che prima o poi i romani avrebbero attaccato tutti i “residui” di tribù galliche ancora stanziate sotto il Po e quindi non si poteva fare affidamento sugli impegni presi dal senato di Roma. Ci fu quindi una sollevazione celtica che portò al saccheggio di Piacenza ed all’assedio di Cremona, le due principali roccaforti romane nell’Italia del nord. Fu immediata la reazione del Senato romano che ordinò alle truppe di stanza ad Arezzo e Rimini di marciare verso Cremona in aiuto degli assediati. Il comando fu dato al console Purpurione che, nel 199, sconfisse Insubri e Boi, liberando Cremona. Il senato era preoccupato dalle continue sollevazioni dei popoli della cispadania e decise di, nel 197 di inviare, quattro legioni comandate dai consoli Cornelio Cetego e Quinto Minucio, nei territori gallici per reprimere le sollevazioni. I consoli romani sconfissero gli Insubri e fecero un patto di non belligeranza con i Cenomani. Rimanevano i Boi che ritiratisi nei loro territori, pur stanchi di combattere non volevano scendere a patti con i romani, dei quali non si fidavano, visti pure i precedenti. Ma il problema dei romani era quello dei collegamenti fra Rimini e Piacenza poiché bisognava attraversare i territori dei Boi. Da Nord e da Sud, i Romani iniziarono a saccheggiare le terre dei Boi che lasciavano fare per non dover subire altre perdite. Livio cita (XXXV-4) il saccheggio, portato a termina dal console Merula, in questo modo: “ … l’altro console, Lucio Cornelio Merula, condusse le sue truppe nel territorio dei Boi, tenendosi sul confine estremo delle terre dei Liguri … Il Console schierava spesso i suoi a battaglia, ma i nemici rifiutavano lo scontro e i romani, poiché nessuno cercava di fermarli, si spingevano con le loro scorrerie, in ogni direzione; … Quando giudicò di aver messo tutto a ferro e fuoco, il console ritirò i suoi dal territorio nemico, conducendoli a Modena, senza prendere particolari precauzioni durante la marcia … I Boi quando si resero conto che il nemico era uscito dalle loro terre, presero ad inseguirlo con marcia silenziosa, cercando un luogo adatto a tendere un agguato: una notte oltrepassarono gli accampamenti romani andando ad attestarsi su una gola per la quale i romani dovevano per forza passare. Il console … muovendosi di giorno, mandò in avanscoperta uno squadrone di cavalleria: quando gli fu riferito quanto numerosi erano i nemici e dove si trovavano, ordinò di radunare le salmerie in un solo punto e difenderle con un vallo e schierando i soldati a battaglia si avvicinò al nemico … Quel giorno furono massacrati 14.000 Boi, ne furono catturati vivi 1.092, assieme a 720 cavalieri, 3 loro comandanti 212 insegne militari e 63 carri”. Questa tremenda decimazione di Boi, databile al 196, portò nello stesso anno alla resa di Bologna. Così piano piano, fino al 192, i Romani diedero battaglia ai galli cispadani che in ogni parte furono sconfitti. I galli diventano Romani Da questo momento i Celti rimasti si sottomisero al potere di Roma, non vennero più chiamati galli, ma inseriti fra la popolazione autoctona che rimase ben divisa dai coloni romani. La potenza di Roma si riaffermerà e come un secolo prima sarà ripristinata la Lex Flaminia con l’elargizione di terreni, alle famiglie dei coloni romani, nelle zone di Bologna, Modena e Parma. Per favorire i collegamenti fra la colonia di Rimini e quella di Piacenza, nell’anno 187, il console Marco Emilio Lepido iniziò la costruzione di una strada che prenderà il nome di via Emilia. Si svilupparono gli scambi e ci fu più libertà nel commercio stante il fatto che ormai era impossibile qualsiasi razzia poiché il territorio era completamente controllato dall’esercito romano. A parte Rimini e Ravenna (Classe) furono fondate altre colonie con il nome di “forum” che stava ad indicare un luogo di mercato: Forum Popilii (Forlimpopoli), Forum Livii (Forlì), Forum Cornelii (Imola). Nel 122 Caio Sempronio Gracco, rieletto tribuno della plebe, propone di estendere la cittadinanza romana agli italici, senza però ottenere esito positivo. E’ poi un altro tribuno della plebe, Livio Druso, che nel 91, propone l’estensione della cittadinanza romana agli alleati italici, ma viene assassinato da ignoti sicari. Ha così inizio la guerra sociale tra Roma e gli alleati italici (i socii) che chiedevano parità di diritti. Dopo tre anni di guerre con numerose sconfitte romane, nel 89, Roma concede la cittadinanza romana a tutte le popolazioni della cispadania che comprendeva pure Ravenna, Bologna e Piacenza, senza distinzione di origine. Inizia così un momento di pace fra le popolazioni italiche. Il nostro territorio fu poi “protagonista” di un altro evento storico importante, quando nel 49 Giulio Cesare non accetta l’intimazione del senato di sciogliere il suo esercito e varca il Rubicone (13 gennaio) considerato il confine settentrionale dell’Italia. Ci fu poi una radicale organizzazione delle colonie nelle cosiddette “Regio” ed i territori cispadani fra l’Adriatico, il Po e l’Appennino furono assegnati alla Legio VIII. Si può quindi dire che, circa dal I° sec. a.C. si ha un’unione delle popolazioni della cispadania con quelle dell’Italia centrale, ed un inizio, almeno per altri tre secoli, ad una lingua comune (il latino) seppur presenti in tutte le zone i diversi idiomi nati da una miscela di altre lingue precedenti. La base però della maggior parte degli idiomi deve essere riferita all’etrusco che si è celtizzato nelle nostre zone per la presenza gallica durata circa 5 sec.. Questi idiomi si latinizzarono per altri 4 sec., ma ognuno con le proprie differenze di base. Se si nota, anche oggi, i diversi dialetti della Valle Padana, sono identificabili territorialmente in quelle aree già occupate dai Celti. Non per nulla questi dialetti sono stati catalogati e chiamati gallo-italici. Con l’1 d.C. Inizia l’era moderna, ma in base ai calcoli del monaco Dionigi il Piccolo, la nascita di Cristo sarebbe avvenuta quattro anni prima. Per me questa è storia moderna che supera il I° millennio a.C. e quindi esaurisce questo mio breve elaborato. (Ugo Cortesi)

Ravenna romana

Ravenna fu una città della Repubblica e poi dell'Impero romano. La storia della Ravenna imperiale non può essere disgiunta da quella del Porto di Augusto, base della Classis Ravennatis. La città fu scelta come sede imperiale romana nel 402 da Onorio. Toponimo Insediamento di epoca remota, il toponimo si ritiene derivi da un prelatino "rava", probabilmente di origine umbra, che in origine designava un "dirupo prodotto da acqua che scorre" e successivamente "canale, palude, bassura, fanghiglia", unito ad un suffisso "-enna", di origine etrusca. Territorio L'ambiente naturale attorno a Ravenna era paragonabile a quello di Venezia e Chioggia: la laguna. Nella laguna di Venezia, gli insediamenti umani sorgevano sulle isole (Venezia stessa) oppure sul cordone litorale (Chioggia). Allo stesso modo, l'insediamento di Ravenna era circondato dal mare. A differenza della laguna veneta, l'ambiente attorno a Ravenna era costituito da una serie di piccole lagune. Le acque delle lagune non comunicavano direttamente col mare. Tra esse e il mare vi era un cordone di dune sabbiose (tali dune sopravvivono oggi in alcuni punti). La città era edificata su un lembo di cordone litoraneo. Per tutta l'antichità, la città fu a contatto diretto col mare. Storia Epoca repubblicana Abitata da genti umbre, la città fu risparmiata dalle invasioni galliche del IV sec. a.C. Nel secolo successivo entrò nella sfera d'influenza di Roma, non opponendosi all'avanzata del suo esercito nella campagna di conquista della Gallia Cisalpina. Dopo la vittoria definitiva sui Galli Boi (191 a.C.), i romani la accettarono come "città alleata latina" (civitas fœderata), condizione che le garantì a lungo una relativa autonomia dall'Urbe. Nell'89 a.C. ottenne lo status di municipium all'interno della Repubblica romana. E se inizialmente durante la guerra civile degli inizi del I sec. a.C. Ravenna si schierò con Mario, in seguito fu occupata, insieme al suo porto dal generale di Lucio Cornelio Silla, Quinto Cecilio Metello Pio. Durante l'inverno del 53-52 a.C., nel pieno della conquista della Gallia, Giulio Cesare fece una leva proprio a Ravenna, in vista dell'anno decisivo della sua campagna militare contro Vercingetorige. Pochi anni più tardi, nel 49 a.C., ancora Ravenna fu il luogo dove Cesare riunì le sue forze prima di attraversare il Rubicone. Nel 44 a.C., all'inizio della guerra civile che si scatenò dopo il cesaricidio, Ottaviano procedette a raccogliere nuove risorse a Ravenna e nei suoi dintorni, inviando poi le nuove leve, appena reclutate, ad Arretium. Nelle fasi successive, dopo la disfatta dei cesaricidi Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino a Filippi ad opera di Marco Antonio ed Ottaviano, quest'ultimo ebbe l'ingrato compito di trovare i fondi necessari per sistemare circa 170.000 veterani, fornendo loro un appezzamento di terra, dei quali ben 100 000 avevano combattuto nella battaglia di Filippi. Le confische territoriali fatte in Italia nel 41 a.C., attuate principalmente in Etruria, crearono ulteriori inimicizie ad Ottaviano, e proprio su questo crescente malcontento fecero leva Fulvia e Lucio Antonio, fratello del triumviro Marco. Agendo però troppo di fretta, i due fornirono a Ottaviano il pretesto per muoversi nella piena legalità, assediando Lucio a Perusia (inverno del 41/40 a.C.). Il triumviro Marco Antonio, dal canto suo, cercò di rimanere neutrale nello scontro e solo con molto ritardo i suoi generali Ventidio Basso e Asinio Pollione, intervennero nel combattimento, senza tuttavia incidere sulle sorti del conflitto, rimanendone esclusi, poiché Ventidio fu costretto a ritirarsi ad Ariminum ed Asinio a Ravenna. Alla fine Lucio fu costretto ad arrendersi ad Ottaviano, per mancanza di cibo e perdonato, grazie al fratello Marco. Non invece fu perdonata la popolazione di Perusia che fu trattata assai duramente, per essersi ribellata ad Ottaviano. Nel 39 a.C. alcune navi da guerra (in particolare triremi) di Ottaviano, partirono dal porto di Ravenna e si recarono a Brundisium, in vista di un accordo con l'altro triumviro, Marco Antonio, alla vigilia della guerra contro Sesto Pompeo, terminata tre anni più tardi nel 36 a.C. con la vittoria di Ottaviano su Sesto nella battaglia di Nauloco. Archeologia della Ravenna repubblicana Ravenna è al centro di una laguna costiera che si prolunga per alcuni km a nord e a sud. Dista solo 17 km dalla foce del ramo meridionale del Po, cui è collegata tramite il fiume Padenna, suo affluente (i Romani lo chiamano Padus Messanicus). Il Padenna, prima di gettarsi in laguna, riceve, a sua volta, le acque del Lamone. Il castrum militare romano fu impiantato nell'isola centrale. La città è a base rettangolare, con lati di poche centinaia di metri di lunghezza. Come ogni oppidum romano, era attraversato da due vie principali: il decumano, in senso nord-sud, e il kardo che congiungeva le porte est ed ovest della città. La via principale terminava alla confluenza dei due fiumi cittadini. I romani denominarono il tratto cittadino del Lamone flumisellum Padennae, considerandolo un affluente del Padenna. Il Foro non è stato individuato con sicurezza, ma è probabile che coincidesse all'area delimitata dalle attuali vie D'Azeglio, Garatoni, Oberdan e Agnello. Il confine sud dell'abitato corrisponde alle attuali vie Ercolana-Guidarelli. La città è circondata da mura solo su tre lati (ovest-sud-est): a nord è lambita dal flumisellum e dal fiume Padenna, che segue il tratto di mura est scorrendogli a fianco. Le mura si sviluppano per una lunghezza di 2,5 km. Oltre la cinta muraria, qualche centinaio di metri più a sud vi erano l'anfiteatro e il tempio di Apollo. Più a sud scorreva il canale Candiano antico, collettore tra la valle omonima e il mare. Era attraversato dal Pons Candidanus. Nei pressi è emersa una necropoli romana. Tra l'abitato e la linea di costa scorreva la via Popilia, strada consolare che iniziava a Rimini e terminava ad Adria. La strada che collegava Ravenna alla via Popilia era detta Via Caesaris; fu costruita nel I sec. a.C. Sono poche le vestigia della Ravenna repubblicana venute alla luce: la più antica testimonianza è un muro risalente alla fine del III sec. a.C., eretto sull'isola centrale probabilmente per resistere ad un eventuale attacco del generale cartaginese Annibale. Sono stati rinvenuti i resti di due strade basolate che si incrociano sotto le attuali via Morigia e via D'Azeglio (fine del III sec. inizio del II sec. a.C.). Qui sono emersi i resti della più antica abitazione di Ravenna, risalente al II sec. a.C. Epoca alto-imperiale Intorno al 27 a.C. l'imperatore Augusto decise di realizzare, 5 km a sud di Ravenna, un porto militare, che spesso visitò negli anni del suo impero. Vi stanziò la flotta militare (la Classis Ravennatis), di pattugliamento dell'Adriatico e del Mediterraneo orientale. Augustò nominò governatore della città lo stesso Prefetto della flotta (praefectus classis). Il porto militare avviò lo sviluppo di stretti ed intensi rapporti fra Ravenna e l'Oriente. Il porto militare fu edificato in un'ampia baia vicina al punto in cui il Padenna sfocia in mare. Contestualmente fu realizzato il collegamento fluviale tra Classe e Ravenna. Dato che il Padenna non era più adatto alla navigazione, Augusto fece costruire un ampio canale artificiale parallelo al fiume (e alla via Popilia). Dallo scalo portuale, le due vie d'acqua procedevano verso Ravenna. La Fossa Augusta, una volta entrata in città (dove ora c'è via di Roma), la attraversava parallelamente al Padenna (il cui letto corrisponde alle attuali via Mazzini e Corrado Ricci). Fu poi realizzato il collegamento verso il ramo meridionale del Po. La Fossa Augusta percorreva un tratto rettilineo (corrispondente all'attuale SP 1 "Sant'Alberto") che la conduceva alla laguna veneta e di qui al sistema portuale di Aquileia, rimanendo sempre all'interno di lagune e percorrendo canali artificiali. Divenne così possibile navigare ininterrottamente da Classe ad Aquileia (circa 250 km) in acque calme e a regime costante. Ravenna si trovò così ad essere referente urbano della base navale di Classe, la quale favorì un grande sviluppo della città e di tutta la zona. Nel 238, quando Massimino Trace, marciando contro l'Italia, giunse in vista di Aquileia, posta all'incrocio di importanti vie di comunicazione e deposito dei viveri e dell'equipaggiamento necessari ai soldati, la città chiuse le porte all'imperatore, guidata da due senatori incaricati dal Senato, Rutilio Pudente Crispino e Tullio Menofilo. Massimino prese allora una decisione fatale: invece di scendere rapidamente sulla capitale con un contingente, mise personalmente sotto assedio la città di Aquileia, permettendo ai suoi avversari di organizzarsi: Pupieno, a cui era stata affidata la conduzione della guerra (mentre Balbino era preposto alla difesa di Roma, dovendo fronteggiare a dei disordini, sorti dietro istigazione di due senatori, Gallicano e Mecenate, contro la stessa guardia pretoriana), raggiunse infatti Ravenna, da cui diresse la difesa della città assediata. Negli anni 258-260, Quadi, Marcomanni, Iazigi e Roxolani furono responsabili della grande catastrofe che colpì il limes pannonico in questi anni (la stessa Aquincum e l'importante forte di Intercisa furono saccheggiati), con lo spopolamento delle campagne dell'intera provincia. Nello stesso periodo, Eutropio racconta di una nuova incursione germanica (forse di Marcomanni) che raggiunse Ravenna prima di essere fermata, proprio mentre l'imperatore Valeriano era impegnato sul fronte orientale contro i Sasanidi di Sapore I. Archeologia della Ravenna alto imperiale In questo periodo la città è interessata da importanti lavori urbanistici di ampliamento: l'agglomerato urbano di Ravenna si espande raggiungendo un'estensione circa quattro volte superiore all'età repubblicana. Ad Est, oltre il Padenna, è realizzato un grande sobborgo tra la città e il mare, denominato "Cæsarum". Il fiume Padenna, che un tempo si trovava ai confini della città, ora scorre all'interno dell'abitato. Anche a nord vengono costruiti nuovi edifici al di là delle mura. Sorge così la contrada (i romani le chiamavano Regioni) Domus Augusta, la zona imperiale di Ravenna. La zona comprende un foro, un Capitolium (presso l'attuale via Cavour), la basilica Herculis (presso piazza Kennedy) ed il miliarium aureum (pietra miliare fondamentale, punto di riferimento per il posizionamento delle pietre miliari lungo le strade consolari, il “punto zero” di Ravenna). Nella Regio Pontis Coperti è ubicato l'antico macello cittadino. Nel Padenna affluivano, nel suo tratto urbano, due corsi d'acqua: il Lamone (flumisellum Padennae) e la fossa Amnis, detta anche Lamises. Dall'ingresso del Padenna in città (a nord, non lontano dall'attuale chiesa di S. Giovanni Battista), il fiume era attraversato dai seguenti ponti: Ponte dei Guarcini (Pons Guarcinorum, presso Porta San Vittore, oggi non più esistente); Ponte Marino (da cui l'omonima via); Ponte San Michele (nell'odierna piazza Andrea Costa); Ponte di Sant'Apollinare (nel punto in cui la via Porticata attraversa il Padenna). Sul flumisellum vi era il Ponte di Augusto (oggi in corrispondenza dell'incrocio tra via Salara e via Cavour). All'incrocio tra il Padenna e la fossa Amnis si trovava il Pons Capetellus o Bicipitellus (nell'attuale piazza Caduti); più a sud vi era il Ponte Calciato (tra la basilica di Sant'Agata e la chiesa di San Nicolò). Risaltano, infine, due nuove costruzione monumentali: - Al tempo dell'imperatore Claudio viene costruita nel 43 d.C. una porta monumentale a doppio arco nel punto in cui la via Popilia entra in città (dopo il 425 prenderà il nome di Porta Aurea). La costruzione non nasce come porta, piuttosto come Arco di Trionfo per accogliere, presumibilmente, l'imperatore Claudio al ritorno dalla vittoriosa campagna di Britannia. Viene edificata nella zona detta oggi Prati di S. Vitale, alcune decine di metri oltre le mura repubblicane. L'Arco di Claudio era costituito da due grandi fornici, per permettere il passaggio contemporaneamente nei due sensi. Rimarrà l'ingresso principale di Ravenna per tutto il periodo romano. - Al tempo dell'imperatore Traiano viene costruito un grande acquedotto. Attinge le acque dal fiume Bidente-Ronco e le porta in città dopo un percorso di circa 50 km. Fuori dalla città, l'area oltre le mura in direzione del mare continuò ad essere utilizzata come necropoli. I cimiteri furono attivi fino al IV sec.. Epoca tardo imperiale A causa della subsidenza, fenomeno naturale che aveva provocato l'impaludamento dell'area su cui sorgeva il porto di Classe, nel 330 l'imperatore Costantino I trasferì la base della flotta nella nuova capitale dell'impero, Costantinopoli. Per Ravenna si aprì una breve fase di decadenza. Alla fine del IV sec. la corte imperiale cominciò a sentirsi poco sicura a Mediolanum, troppo esposta agli attacchi barbarici e progettò di trasferirsi a Roma. Come tappa di avvicinamento scelse Ravenna come sede temporanea. La città era lontana dalle Alpi, da dove potevano provenire le minacce più serie. Inoltre, la sua condizione di città marittima le permetteva più facili collegamenti con Costantinopoli, la capitale dell'Impero Romano d'Oriente. Nel 402, l'imperatore Onorio, figlio di Teodosio I, si trasferì con la propria corte a Ravenna, che divenne nuova capitale e sede della prefettura del pretorio d'Italia. Grazie alla presenza della corte, Ravenna divenne un centro cosmopolita, assai disponibile e ricettivo nei confronti degli influssi culturali esercitati dall'Oriente. Dopo aver preso a modello il fasto di Costantinopoli, Ravenna, ad essa legata da vincoli di parentela e continui scambi, assunse l'aspetto di una città imperiale: sorsero grandiose costruzioni civili (palazzo imperiale) e religiose (cattedrale) che emulavano, nell'architettura e nelle decorazioni, quelle della capitale d'Oriente. Nel 408, il re dei Visigoti Alarico I chiese ad Onorio il permesso di portare il proprio esercito dal Norico alla Pannonia, oltre a modesti versamenti, ma Onorio, consigliato dal proprio magister officiorum Olimpio, si rifiutò di trattare. I Visigoti, allora, raggiunsero Roma ed estorsero ai notabili cittadini 5.000 libbre d'oro, 30.000 libbre d'argento, 4.000 tuniche di seta, 3.000 panni porpora e 3.000 libbre di pepe, mentre Onorio rimaneva inerte a Ravenna. Due anni più tardi Alarico assediava e saccheggiava Roma, dopo ben otto sec. dal sacco dei Galli del IV sec. a.C.. Il tragico evento fece desistere la corte dai propri propositi e Ravenna divenne la sede imperiale permanente. Quando i Visigoti di Alarico lasciarono l'Urbe, portarono con loro anche un prezioso ostaggio, Galla Placidia, la sorella dell'Imperatore Onorio, che utilizzarono per costringere Onorio a cedere alle loro richieste: iniziarono così diversi anni di prigionia per la giovane principessa, all'epoca diciottenne. Quando Alarico morì, il successore, Ataulfo, condusse i Visigoti e Galla Placidia in Puglia, Sannio, Piceno e poi verso nord, in Gallia, dove, nel 412, fu prima alleato e poi nemico dell'usurpatore Giovino, che catturò e consegnò ai Romani: Ataulfo sperava di essersi guadagnato il riconoscimento della corte ravennate, ma Onorio gli oppose la richiesta che fosse riconsegnata Galla Placidia. A Ravenna Flavio Costanzo, il generale che aveva fermato Alarico in Calabria, si rifiutò di trattare; Ataulfo decise di puntare allora su Marsiglia, ma qui fu bloccato dal generale Bonifacio, che difese la città dagli attacchi visigoti, durante i quali Ataulfo fu persino ferito. Ataulfo riuscì finalmente ad entrare a Narbona; qui nel 414, all'età di quaranta anni circa, sposò con rito romano una ventiduenne Galla Placidia. Il matrimonio, che avrebbe dovuto unire i Visigoti ai Romani, non fu riconosciuto a Ravenna. Ataulfo reagì rieleggendo imperatore Prisco Attalo, sempre nel 414, con potere nominale sulla Gallia. Costanzo si recò con un esercito in Gallia per affrontare i Visigoti; Ataulfo e Galla abbandonarono la regione e si recarono in Spagna (fine 414, inizi 415), lasciando indietro Attalo, il quale fu catturato e spedito a Onorio. Frattanto i "nazionalisti" visigoti, ordirono una congiura che, nell'estate del 415, causò la morte di Ataulfo. Il successore di Ataulfo, Sigerico, fu ucciso sette giorni dopo essere salito al trono: gli successe Vallia, che si dimostrò più moderato, cercando di negoziare con i Romani. I Visigoti tentarono di passare in Africa, ma, impossibilitati, tornarono a nord dove, nel 416, incontrarono i messaggeri di Costanzo, capeggiati da Eupluzio: in cambio di un grosso quantitativo di grano, Vallia accettò di combattere per i Romani i Vandali e gli Svevi, popolazioni barbare stanziatesi in Spagna e di restituire Galla Placidia. Eupluzio portò Galla da Costanzo e i due si imbarcarono insieme dalla Spagna diretti a Marsiglia e poi di qui in Italia e a Ravenna. Onorio premiò Costanzo per la liberazione di Galla da una prigionia durata sei anni con il consolato per il 417; portò con sé la sorella a Roma per celebrare il trionfo sui nemici dello stato (tra cui Attalo), per poi tornare insieme a lei a Ravenna. Onorio, spesso in contrasto con il fratello imperatore d'Oriente, cercò l'alleanza con la Chiesa cattolica eliminando le ultime vestigia del paganesimo come, ad esempio, i giochi gladiatorii. Per rinforzarsi politicamente, Onorio si avvicinò a Flavio Costanzo, al quale diede in moglie la propria sorella Galla Placidia (417), poi lo associò al trono nel 421, come Costanzo III. Tuttavia tale stratagemma fu reso vano dal decesso di Flavio Costanzo avvenuto durante il medesimo anno, così che l'imperatore, sentendosi fondamentalmente inadeguato nell'affrontare la profonda ed irreversibile crisi del momento, ritenne opportuno ritirarsi a Ravenna, dove morì nell'anno 423, il 15 agosto. Aveva trentotto anni e regnava da ventotto. Non avendo lasciato eredi, si aprì il problema della successione sul trono d'Occidente. La corte di Ravenna e il Senato romano scelsero come successore Giovanni Primicerio, un alto funzionario imperiale, ma la corte di Costantinopoli non riconobbe l'elezione, che rompeva la continuità dinastica dei sovrani d'Occidente. Giovanni ebbe dei collaboratori di rilievo, come i generali Castino (già avversario di Galla) ed Ezio, ma anche dei formidabili e decisivi avversari, Bonifacio, che in qualità di comandante dell'Africa controllava la fondamentale fornitura di grano per la città di Roma, e i Visigoti, i quali riconobbero legittimi successori di Onorio la loro regina Galla Placidia e Valentiniano III. La corte d'Oriente non era stata favorevole all'ascesa di Galla e Valentiniano, come testimoniato dal mancato riconoscimento dei loro titoli di augusta e nobilissimus, ma dovette riconoscere che la figlia di Teodosio I aveva molti sostenitori in Occidente e che era comunque meglio di un imperatore non dinastico; inoltre Teodosio II aveva avuto solo due figlie fino a quel momento (né ebbe in seguito figli maschi), mentre il figlio di Galla garantiva la continuità della casata di Teodosio. L'imperatore d'Oriente decise allora di porre il cugino sul trono d'Occidente e organizzò una spedizione per rovesciare Giovanni. Galla e Valentiniano videro riconosciuti i loro titoli, mentre il 24/10/424 Valentiniano fu nominato cesare d'Occidente all'inizio della spedizione in Italia. L'esercito romano d'Oriente si divise in tre gruppi, con Galla e Valentiniano a seguito del contingente terrestre comandato dal generale Aspare, il quale occupò Salona, risalì l'Istria e puntò su Aquileia, centro nevralgico della zona, che fu catturata molto facilmente e dove si insediarono il cesare d'Occidente con la sua augusta madre. Aspare, invece, discese su Ravenna, dove si trovava Giovanni, e la prese facilmente, probabilmente grazie al sostegno della fazione favorevole a Galla. Aspare catturò Giovanni e lo inviò ad Aquileia da Galla, la quale ordinò che gli fosse tagliata la mano destra, che fosse legato ad un asino ed esposto per le strade di Ravenna al pubblico ludibrio e che fosse infine decapitato nel circo (maggio 425). Durante il suo governo, Galla si trovò a dover gestire equilibratamente diverse figure forti, tra cui Felice, Bonifacio ed Ezio. Galla non era certo felice del potere ottenuto da Ezio, cui rimase sempre ostile, ma dovette accettarlo in quanto non le era possibile sottrarglielo. Mentre Ezio contrastava con successo i Visigoti e i Franchi in Gallia, aumentava a corte l'influenza di Felice, che si vide confermare il proprio potere con le nomine ricevute da Galla a console (428) e poi a patricius (429). Tra i tre uomini forti, quello che rimase maggiormente insoddisfatto era proprio il principale sostenitore di Galla, Bonifacio. Scomparso dalla scena Felice, Galla Placidia si trovò a dover scegliere tra Ezio, che disprezzava, e Bonifacio, che era stato però il responsabile della perdita dell'Africa. L'augusta, forse consigliata da quei cortigiani che erano stati sostenitori di Felice e che temevano le ritorsioni di Ezio, sottrasse al generale impegnato in Gallia il titolo di magister utriusque militiae per darlo a Bonifacio, che elevò anche al rango di patricius per metterlo al di sopra di Ezio, che sarebbe stato console per il 432. Bonifacio, forte del sostegno dell'augusta, decise di passare alle vie di fatto contro il suo avversario, dando inizio ad una guerra civile tra i due uomini forti dell'Impero romano d'Occidente. La scelta di Galla di puntare su Bonifacio sembrò vincente, quando questi sconfisse Ezio nella battaglia di Ravenna (gennaio 432) e lo costrinse a fuggire prima a Roma poi tra i suoi amici Unni; Bonifacio, però, morì a seguito delle ferite riportate nello scontro e il suo successore alla carica di magister utriusque militiae, il genero Sebastiano, non riuscì ad opporsi a Ezio e ai suoi alleati unni. Galla si trovò quindi con Ezio ulteriormente rafforzato dalla morte dei suoi possibili antagonisti e fu costretta a restituirgli la carica di magister utriusque militiae e a conferirgli il patriziato. Ezio ebbe il merito di concludere una pace con i Vandali (trattato di Trigezio, 11/2/435), che riconosceva lo status quo e segnò l'inizio di un periodo di pace. Nel 437 Valentiniano compì diciotto anni e con la sua maggiore età terminò la reggenza di Galla, che però continuò ad esercitare un'enorme influenza a corte. Con la scomparsa di Valentiniano III (datata 455, cinque anni dopo la morte della madre Galla Placidia) si chiuse il capitolo storico legato alla dinastia teodosiana e Ravenna si avviò verso un inesorabile declino. Nel 474, durante il regno di Zenone a Costantinopoli, il patrizio Giulio Nepote, comes della Dalmazia, appoggiato dall'Impero d'Oriente, reclamò per sé il trono d'Occidente, e, giunto al Porto della città di Roma, depose l'Imperatore Glicerio e lo costrinse a farsi vescovo, mentre egli stesso si fece incoronare imperatore a Roma. Dopo pochi mesi di regno, tuttavia, nel 475, fu costretto da una rivolta dell'esercito d'Italia condotto dal patrizio Oreste ad abbandonare il trono e a fuggire a bordo di una nave a Salona, in Dalmazia, dove rimase per cinque anni; nel 480 fu in seguito massacrato dai suoi stessi uomini. Nel frattempo l'esercito d'Italia nominò nuovo imperatore Romolo Augusto, un giovinetto figlio del patrizio Oreste. Odoacre, tuttavia, il comandante di truppe mercenarie di Sciri e altri barbari al servizio di Roma, nel 476 si rivoltò, reclamando per sé e per le sue truppe un terzo dell'Italia e fece uccidere il patrizio Oreste a Piacenza, e il fratello di Oreste, Paolo, nella Pineta vicino a Classe, il porto di Ravenna. Entrato poi a Ravenna, depose Romolo Augusto dal trono, ma avendo pietà di lui, vista la sua giovane età, lo risparmiò, permettendogli di vivere in esilio in Campania con i suoi parenti garantendogli addirittura una rendita di sei mila solidi d'oro. Fece poi inviare un'ambasceria composta da senatori a Costantinopoli, presso l'imperatore Zenone. Zenone, riflettuto sul da farsi, negò aiuti a Nepote e rispose all'ambasceria del senato romano, accettando Odoacre come patrizio, ma a patto che quest'ultimo accettasse come suo imperatore d'Occidente Giulio Nepote, in esilio in Dalmazia. Nonostante l'imperatore nominale d'Occidente rimanesse in Dalmazia, Odoacre fece coniare a Ravenna monete in suo nome. Nel 480 Giulio Nepote fu assassinato a Salona dai suoi stessi uomini. L'Impero romano d'Occidente era caduto, anche se per una rivolta interna (l'usurpazione di Odoacre) e non per cause propriamente esterne (Odoacre, seppur di origini barbariche, faceva parte dell'esercito romano). Archeologia della Ravenna cristiana e capitale imperiale Quando Onorio giunse a Ravenna (402), la città non disponeva di un palazzo imperiale. Esso fu fatto costruire sul praetorium del praefectus classis. Il praetorium si affacciava sulla Fossa Augusta: il canale fu completamente interrato, diventando la Platea maior, l'arteria principale della città. Il palazzo imperiale si configurava come un complesso di edifici: palazzo pubblico, residenze private, caserma, chiesa palatina, giardini e corti porticate. Sull'altro lato della Plateia maior fu fatto costruire l'ippodromo. Gli imperatori romani festeggiavano i propri 10, 20 e 30 anni di impero. Onorio celebrò in città i suoi Tricennali; prima di lui, Diocleziano a Ravenna celebrò il consolato. In seguito all'insediamento della corte imperiale in città, il vescovo Orso trasferì la sede episcopale da Classe a Ravenna. Orso fece costruire la ecclesìa catholica, cioè la cattedrale, dedicandola alla Hagìa Anástasis, ovvero alla Santa Resurrezione. Appartiene allo stesso periodo la basilica di San Lorenzo in Cesarea. Localizzata a meridione della città, all'esterno dell'area urbana, l'edificio religioso sostituì presumibilmente un santuario legato all'area cimiteriale. Questo edificio fu voluto dall'imperatore Onorio, così come l'Apostoleion, ovvero una chiesa dedicata ai Dodici apostoli. Nello stesso periodo fu restaurata la cinta muraria. Fu poi aggiunto un nuovo tratto: essa incluse, per la prima volta, la nuova area a nord del fiumicello Padenna; inoltre, a sud racchiuse l'area dei prati, che fino ad allora si era trovata per la maggior parte fuori del perimetro difensivo. La lunghezza complessiva della cinta raggiunse i 5 km. Si ritiene che le mura fossero alte tra i 4 e i 5 m. Il fiume Lamone che, proveniente da Faenza, passava a pochi km dalla città, fu deviato. Un ramo fu fatto scorrere lungo le mura per alimentare i fossati, mentre il corso principale venne arginato e fu fatto girare attorno alle mura di settentrione per poi riprendere il suo percorso verso Nord. Alla morte di Onorio (423), la sorella Galla Placidia, vedova dell'imperatore Costanzo III, riuscì ad ottenere la reggenza dell'Impero in nome del figlio Valentiniano III, di soli 6 anni. Galla Placidia giunse a Ravenna nel 424 e continuò l'azione di monumentalizzazione della città, che aveva avviato Onorio, per un quarto di secolo, fino al 450. La sovrana commissionò la costruzione della Basilica di San Giovanni Evangelista (chiesa palatina fondata da Galla Placidia presso il porto), con la quale scioglieva un voto fatto durante il periglioso viaggio che l'aveva condotta da Costantinopoli a Ravenna via mare. In un'altra parte della città, ad ovest del Padenna e a nord del Fiumicello Padenna, fece costruire la chiesa di Santa Croce, una Domus (oggi chiamata "Domus di Galla Placidia") e un palazzo dedicato al figlio Valentiniano. Vicino alla chiesa di Santa Croce (oggi visibile solo parzialmente) fu edificato un sacello che oggi viene denominato «mausoleo di Galla Placidia». La sovrana fece costruire il mausoleo per sé, per il marito Costanzo e per il fratello Onorio, ma non vi trovò sepoltura. Morì infatti a Roma il 27/11/450 e fu sepolta nella città eterna. Negli anni dopo il 425 l'Arco di Claudio assume il nome di Porta Aurea, come l'omonima porta delle mura di Costantinopoli, per commemorare la vittoria di Teodosio II sul tiranno usurpato. Alla metà del secolo la cattedrale venne ampiamente ristrutturata per volontà del vescovo Neone, che vi aggiunse, a fianco, il Palazzo episcopale e il battistero (chiamato oggi Battistero Neoniano). Successivamente, la chiesa prese il nome di Basilica Ursiana, dal vescovo Orso. Risale allo stesso periodo, la scomparsa basilica petriana, fatta edificare a Classe dal vescovo San Pietro Crisologo. La pianta di Ravenna capitale rimase immutata fino all'epoca veneziana. Al tempo del re goto Teoderico (493-526) la Fossa Augusta, interratasi a causa dell'apporto continuo di materiale dal Po e dai suoi affluenti, fu definitivamente tombata. Porta Aurea (vedi supra) rimase in piedi fino al XVI sec., ultima delle vestigia imperiali a cadere. Le colonne della Porta vennero sparpagliate come trofei tra le varie chiese di Ravenna; una parte giunse addirittura a Venezia. Sculture di epoca romana decorano ancora la chiesa di San Giovanni in Fonte.
181 preporuka/e lokalaca
Ravenna
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Ravenna fu una città della Repubblica e poi dell'Impero romano. La storia della Ravenna imperiale non può essere disgiunta da quella del Porto di Augusto, base della Classis Ravennatis. La città fu scelta come sede imperiale romana nel 402 da Onorio. Toponimo Insediamento di epoca remota, il toponimo si ritiene derivi da un prelatino "rava", probabilmente di origine umbra, che in origine designava un "dirupo prodotto da acqua che scorre" e successivamente "canale, palude, bassura, fanghiglia", unito ad un suffisso "-enna", di origine etrusca. Territorio L'ambiente naturale attorno a Ravenna era paragonabile a quello di Venezia e Chioggia: la laguna. Nella laguna di Venezia, gli insediamenti umani sorgevano sulle isole (Venezia stessa) oppure sul cordone litorale (Chioggia). Allo stesso modo, l'insediamento di Ravenna era circondato dal mare. A differenza della laguna veneta, l'ambiente attorno a Ravenna era costituito da una serie di piccole lagune. Le acque delle lagune non comunicavano direttamente col mare. Tra esse e il mare vi era un cordone di dune sabbiose (tali dune sopravvivono oggi in alcuni punti). La città era edificata su un lembo di cordone litoraneo. Per tutta l'antichità, la città fu a contatto diretto col mare. Storia Epoca repubblicana Abitata da genti umbre, la città fu risparmiata dalle invasioni galliche del IV sec. a.C. Nel secolo successivo entrò nella sfera d'influenza di Roma, non opponendosi all'avanzata del suo esercito nella campagna di conquista della Gallia Cisalpina. Dopo la vittoria definitiva sui Galli Boi (191 a.C.), i romani la accettarono come "città alleata latina" (civitas fœderata), condizione che le garantì a lungo una relativa autonomia dall'Urbe. Nell'89 a.C. ottenne lo status di municipium all'interno della Repubblica romana. E se inizialmente durante la guerra civile degli inizi del I sec. a.C. Ravenna si schierò con Mario, in seguito fu occupata, insieme al suo porto dal generale di Lucio Cornelio Silla, Quinto Cecilio Metello Pio. Durante l'inverno del 53-52 a.C., nel pieno della conquista della Gallia, Giulio Cesare fece una leva proprio a Ravenna, in vista dell'anno decisivo della sua campagna militare contro Vercingetorige. Pochi anni più tardi, nel 49 a.C., ancora Ravenna fu il luogo dove Cesare riunì le sue forze prima di attraversare il Rubicone. Nel 44 a.C., all'inizio della guerra civile che si scatenò dopo il cesaricidio, Ottaviano procedette a raccogliere nuove risorse a Ravenna e nei suoi dintorni, inviando poi le nuove leve, appena reclutate, ad Arretium. Nelle fasi successive, dopo la disfatta dei cesaricidi Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino a Filippi ad opera di Marco Antonio ed Ottaviano, quest'ultimo ebbe l'ingrato compito di trovare i fondi necessari per sistemare circa 170.000 veterani, fornendo loro un appezzamento di terra, dei quali ben 100 000 avevano combattuto nella battaglia di Filippi. Le confische territoriali fatte in Italia nel 41 a.C., attuate principalmente in Etruria, crearono ulteriori inimicizie ad Ottaviano, e proprio su questo crescente malcontento fecero leva Fulvia e Lucio Antonio, fratello del triumviro Marco. Agendo però troppo di fretta, i due fornirono a Ottaviano il pretesto per muoversi nella piena legalità, assediando Lucio a Perusia (inverno del 41/40 a.C.). Il triumviro Marco Antonio, dal canto suo, cercò di rimanere neutrale nello scontro e solo con molto ritardo i suoi generali Ventidio Basso e Asinio Pollione, intervennero nel combattimento, senza tuttavia incidere sulle sorti del conflitto, rimanendone esclusi, poiché Ventidio fu costretto a ritirarsi ad Ariminum ed Asinio a Ravenna. Alla fine Lucio fu costretto ad arrendersi ad Ottaviano, per mancanza di cibo e perdonato, grazie al fratello Marco. Non invece fu perdonata la popolazione di Perusia che fu trattata assai duramente, per essersi ribellata ad Ottaviano. Nel 39 a.C. alcune navi da guerra (in particolare triremi) di Ottaviano, partirono dal porto di Ravenna e si recarono a Brundisium, in vista di un accordo con l'altro triumviro, Marco Antonio, alla vigilia della guerra contro Sesto Pompeo, terminata tre anni più tardi nel 36 a.C. con la vittoria di Ottaviano su Sesto nella battaglia di Nauloco. Archeologia della Ravenna repubblicana Ravenna è al centro di una laguna costiera che si prolunga per alcuni km a nord e a sud. Dista solo 17 km dalla foce del ramo meridionale del Po, cui è collegata tramite il fiume Padenna, suo affluente (i Romani lo chiamano Padus Messanicus). Il Padenna, prima di gettarsi in laguna, riceve, a sua volta, le acque del Lamone. Il castrum militare romano fu impiantato nell'isola centrale. La città è a base rettangolare, con lati di poche centinaia di metri di lunghezza. Come ogni oppidum romano, era attraversato da due vie principali: il decumano, in senso nord-sud, e il kardo che congiungeva le porte est ed ovest della città. La via principale terminava alla confluenza dei due fiumi cittadini. I romani denominarono il tratto cittadino del Lamone flumisellum Padennae, considerandolo un affluente del Padenna. Il Foro non è stato individuato con sicurezza, ma è probabile che coincidesse all'area delimitata dalle attuali vie D'Azeglio, Garatoni, Oberdan e Agnello. Il confine sud dell'abitato corrisponde alle attuali vie Ercolana-Guidarelli. La città è circondata da mura solo su tre lati (ovest-sud-est): a nord è lambita dal flumisellum e dal fiume Padenna, che segue il tratto di mura est scorrendogli a fianco. Le mura si sviluppano per una lunghezza di 2,5 km. Oltre la cinta muraria, qualche centinaio di metri più a sud vi erano l'anfiteatro e il tempio di Apollo. Più a sud scorreva il canale Candiano antico, collettore tra la valle omonima e il mare. Era attraversato dal Pons Candidanus. Nei pressi è emersa una necropoli romana. Tra l'abitato e la linea di costa scorreva la via Popilia, strada consolare che iniziava a Rimini e terminava ad Adria. La strada che collegava Ravenna alla via Popilia era detta Via Caesaris; fu costruita nel I sec. a.C. Sono poche le vestigia della Ravenna repubblicana venute alla luce: la più antica testimonianza è un muro risalente alla fine del III sec. a.C., eretto sull'isola centrale probabilmente per resistere ad un eventuale attacco del generale cartaginese Annibale. Sono stati rinvenuti i resti di due strade basolate che si incrociano sotto le attuali via Morigia e via D'Azeglio (fine del III sec. inizio del II sec. a.C.). Qui sono emersi i resti della più antica abitazione di Ravenna, risalente al II sec. a.C. Epoca alto-imperiale Intorno al 27 a.C. l'imperatore Augusto decise di realizzare, 5 km a sud di Ravenna, un porto militare, che spesso visitò negli anni del suo impero. Vi stanziò la flotta militare (la Classis Ravennatis), di pattugliamento dell'Adriatico e del Mediterraneo orientale. Augustò nominò governatore della città lo stesso Prefetto della flotta (praefectus classis). Il porto militare avviò lo sviluppo di stretti ed intensi rapporti fra Ravenna e l'Oriente. Il porto militare fu edificato in un'ampia baia vicina al punto in cui il Padenna sfocia in mare. Contestualmente fu realizzato il collegamento fluviale tra Classe e Ravenna. Dato che il Padenna non era più adatto alla navigazione, Augusto fece costruire un ampio canale artificiale parallelo al fiume (e alla via Popilia). Dallo scalo portuale, le due vie d'acqua procedevano verso Ravenna. La Fossa Augusta, una volta entrata in città (dove ora c'è via di Roma), la attraversava parallelamente al Padenna (il cui letto corrisponde alle attuali via Mazzini e Corrado Ricci). Fu poi realizzato il collegamento verso il ramo meridionale del Po. La Fossa Augusta percorreva un tratto rettilineo (corrispondente all'attuale SP 1 "Sant'Alberto") che la conduceva alla laguna veneta e di qui al sistema portuale di Aquileia, rimanendo sempre all'interno di lagune e percorrendo canali artificiali. Divenne così possibile navigare ininterrottamente da Classe ad Aquileia (circa 250 km) in acque calme e a regime costante. Ravenna si trovò così ad essere referente urbano della base navale di Classe, la quale favorì un grande sviluppo della città e di tutta la zona. Nel 238, quando Massimino Trace, marciando contro l'Italia, giunse in vista di Aquileia, posta all'incrocio di importanti vie di comunicazione e deposito dei viveri e dell'equipaggiamento necessari ai soldati, la città chiuse le porte all'imperatore, guidata da due senatori incaricati dal Senato, Rutilio Pudente Crispino e Tullio Menofilo. Massimino prese allora una decisione fatale: invece di scendere rapidamente sulla capitale con un contingente, mise personalmente sotto assedio la città di Aquileia, permettendo ai suoi avversari di organizzarsi: Pupieno, a cui era stata affidata la conduzione della guerra (mentre Balbino era preposto alla difesa di Roma, dovendo fronteggiare a dei disordini, sorti dietro istigazione di due senatori, Gallicano e Mecenate, contro la stessa guardia pretoriana), raggiunse infatti Ravenna, da cui diresse la difesa della città assediata. Negli anni 258-260, Quadi, Marcomanni, Iazigi e Roxolani furono responsabili della grande catastrofe che colpì il limes pannonico in questi anni (la stessa Aquincum e l'importante forte di Intercisa furono saccheggiati), con lo spopolamento delle campagne dell'intera provincia. Nello stesso periodo, Eutropio racconta di una nuova incursione germanica (forse di Marcomanni) che raggiunse Ravenna prima di essere fermata, proprio mentre l'imperatore Valeriano era impegnato sul fronte orientale contro i Sasanidi di Sapore I. Archeologia della Ravenna alto imperiale In questo periodo la città è interessata da importanti lavori urbanistici di ampliamento: l'agglomerato urbano di Ravenna si espande raggiungendo un'estensione circa quattro volte superiore all'età repubblicana. Ad Est, oltre il Padenna, è realizzato un grande sobborgo tra la città e il mare, denominato "Cæsarum". Il fiume Padenna, che un tempo si trovava ai confini della città, ora scorre all'interno dell'abitato. Anche a nord vengono costruiti nuovi edifici al di là delle mura. Sorge così la contrada (i romani le chiamavano Regioni) Domus Augusta, la zona imperiale di Ravenna. La zona comprende un foro, un Capitolium (presso l'attuale via Cavour), la basilica Herculis (presso piazza Kennedy) ed il miliarium aureum (pietra miliare fondamentale, punto di riferimento per il posizionamento delle pietre miliari lungo le strade consolari, il “punto zero” di Ravenna). Nella Regio Pontis Coperti è ubicato l'antico macello cittadino. Nel Padenna affluivano, nel suo tratto urbano, due corsi d'acqua: il Lamone (flumisellum Padennae) e la fossa Amnis, detta anche Lamises. Dall'ingresso del Padenna in città (a nord, non lontano dall'attuale chiesa di S. Giovanni Battista), il fiume era attraversato dai seguenti ponti: Ponte dei Guarcini (Pons Guarcinorum, presso Porta San Vittore, oggi non più esistente); Ponte Marino (da cui l'omonima via); Ponte San Michele (nell'odierna piazza Andrea Costa); Ponte di Sant'Apollinare (nel punto in cui la via Porticata attraversa il Padenna). Sul flumisellum vi era il Ponte di Augusto (oggi in corrispondenza dell'incrocio tra via Salara e via Cavour). All'incrocio tra il Padenna e la fossa Amnis si trovava il Pons Capetellus o Bicipitellus (nell'attuale piazza Caduti); più a sud vi era il Ponte Calciato (tra la basilica di Sant'Agata e la chiesa di San Nicolò). Risaltano, infine, due nuove costruzione monumentali: - Al tempo dell'imperatore Claudio viene costruita nel 43 d.C. una porta monumentale a doppio arco nel punto in cui la via Popilia entra in città (dopo il 425 prenderà il nome di Porta Aurea). La costruzione non nasce come porta, piuttosto come Arco di Trionfo per accogliere, presumibilmente, l'imperatore Claudio al ritorno dalla vittoriosa campagna di Britannia. Viene edificata nella zona detta oggi Prati di S. Vitale, alcune decine di metri oltre le mura repubblicane. L'Arco di Claudio era costituito da due grandi fornici, per permettere il passaggio contemporaneamente nei due sensi. Rimarrà l'ingresso principale di Ravenna per tutto il periodo romano. - Al tempo dell'imperatore Traiano viene costruito un grande acquedotto. Attinge le acque dal fiume Bidente-Ronco e le porta in città dopo un percorso di circa 50 km. Fuori dalla città, l'area oltre le mura in direzione del mare continuò ad essere utilizzata come necropoli. I cimiteri furono attivi fino al IV sec.. Epoca tardo imperiale A causa della subsidenza, fenomeno naturale che aveva provocato l'impaludamento dell'area su cui sorgeva il porto di Classe, nel 330 l'imperatore Costantino I trasferì la base della flotta nella nuova capitale dell'impero, Costantinopoli. Per Ravenna si aprì una breve fase di decadenza. Alla fine del IV sec. la corte imperiale cominciò a sentirsi poco sicura a Mediolanum, troppo esposta agli attacchi barbarici e progettò di trasferirsi a Roma. Come tappa di avvicinamento scelse Ravenna come sede temporanea. La città era lontana dalle Alpi, da dove potevano provenire le minacce più serie. Inoltre, la sua condizione di città marittima le permetteva più facili collegamenti con Costantinopoli, la capitale dell'Impero Romano d'Oriente. Nel 402, l'imperatore Onorio, figlio di Teodosio I, si trasferì con la propria corte a Ravenna, che divenne nuova capitale e sede della prefettura del pretorio d'Italia. Grazie alla presenza della corte, Ravenna divenne un centro cosmopolita, assai disponibile e ricettivo nei confronti degli influssi culturali esercitati dall'Oriente. Dopo aver preso a modello il fasto di Costantinopoli, Ravenna, ad essa legata da vincoli di parentela e continui scambi, assunse l'aspetto di una città imperiale: sorsero grandiose costruzioni civili (palazzo imperiale) e religiose (cattedrale) che emulavano, nell'architettura e nelle decorazioni, quelle della capitale d'Oriente. Nel 408, il re dei Visigoti Alarico I chiese ad Onorio il permesso di portare il proprio esercito dal Norico alla Pannonia, oltre a modesti versamenti, ma Onorio, consigliato dal proprio magister officiorum Olimpio, si rifiutò di trattare. I Visigoti, allora, raggiunsero Roma ed estorsero ai notabili cittadini 5.000 libbre d'oro, 30.000 libbre d'argento, 4.000 tuniche di seta, 3.000 panni porpora e 3.000 libbre di pepe, mentre Onorio rimaneva inerte a Ravenna. Due anni più tardi Alarico assediava e saccheggiava Roma, dopo ben otto sec. dal sacco dei Galli del IV sec. a.C.. Il tragico evento fece desistere la corte dai propri propositi e Ravenna divenne la sede imperiale permanente. Quando i Visigoti di Alarico lasciarono l'Urbe, portarono con loro anche un prezioso ostaggio, Galla Placidia, la sorella dell'Imperatore Onorio, che utilizzarono per costringere Onorio a cedere alle loro richieste: iniziarono così diversi anni di prigionia per la giovane principessa, all'epoca diciottenne. Quando Alarico morì, il successore, Ataulfo, condusse i Visigoti e Galla Placidia in Puglia, Sannio, Piceno e poi verso nord, in Gallia, dove, nel 412, fu prima alleato e poi nemico dell'usurpatore Giovino, che catturò e consegnò ai Romani: Ataulfo sperava di essersi guadagnato il riconoscimento della corte ravennate, ma Onorio gli oppose la richiesta che fosse riconsegnata Galla Placidia. A Ravenna Flavio Costanzo, il generale che aveva fermato Alarico in Calabria, si rifiutò di trattare; Ataulfo decise di puntare allora su Marsiglia, ma qui fu bloccato dal generale Bonifacio, che difese la città dagli attacchi visigoti, durante i quali Ataulfo fu persino ferito. Ataulfo riuscì finalmente ad entrare a Narbona; qui nel 414, all'età di quaranta anni circa, sposò con rito romano una ventiduenne Galla Placidia. Il matrimonio, che avrebbe dovuto unire i Visigoti ai Romani, non fu riconosciuto a Ravenna. Ataulfo reagì rieleggendo imperatore Prisco Attalo, sempre nel 414, con potere nominale sulla Gallia. Costanzo si recò con un esercito in Gallia per affrontare i Visigoti; Ataulfo e Galla abbandonarono la regione e si recarono in Spagna (fine 414, inizi 415), lasciando indietro Attalo, il quale fu catturato e spedito a Onorio. Frattanto i "nazionalisti" visigoti, ordirono una congiura che, nell'estate del 415, causò la morte di Ataulfo. Il successore di Ataulfo, Sigerico, fu ucciso sette giorni dopo essere salito al trono: gli successe Vallia, che si dimostrò più moderato, cercando di negoziare con i Romani. I Visigoti tentarono di passare in Africa, ma, impossibilitati, tornarono a nord dove, nel 416, incontrarono i messaggeri di Costanzo, capeggiati da Eupluzio: in cambio di un grosso quantitativo di grano, Vallia accettò di combattere per i Romani i Vandali e gli Svevi, popolazioni barbare stanziatesi in Spagna e di restituire Galla Placidia. Eupluzio portò Galla da Costanzo e i due si imbarcarono insieme dalla Spagna diretti a Marsiglia e poi di qui in Italia e a Ravenna. Onorio premiò Costanzo per la liberazione di Galla da una prigionia durata sei anni con il consolato per il 417; portò con sé la sorella a Roma per celebrare il trionfo sui nemici dello stato (tra cui Attalo), per poi tornare insieme a lei a Ravenna. Onorio, spesso in contrasto con il fratello imperatore d'Oriente, cercò l'alleanza con la Chiesa cattolica eliminando le ultime vestigia del paganesimo come, ad esempio, i giochi gladiatorii. Per rinforzarsi politicamente, Onorio si avvicinò a Flavio Costanzo, al quale diede in moglie la propria sorella Galla Placidia (417), poi lo associò al trono nel 421, come Costanzo III. Tuttavia tale stratagemma fu reso vano dal decesso di Flavio Costanzo avvenuto durante il medesimo anno, così che l'imperatore, sentendosi fondamentalmente inadeguato nell'affrontare la profonda ed irreversibile crisi del momento, ritenne opportuno ritirarsi a Ravenna, dove morì nell'anno 423, il 15 agosto. Aveva trentotto anni e regnava da ventotto. Non avendo lasciato eredi, si aprì il problema della successione sul trono d'Occidente. La corte di Ravenna e il Senato romano scelsero come successore Giovanni Primicerio, un alto funzionario imperiale, ma la corte di Costantinopoli non riconobbe l'elezione, che rompeva la continuità dinastica dei sovrani d'Occidente. Giovanni ebbe dei collaboratori di rilievo, come i generali Castino (già avversario di Galla) ed Ezio, ma anche dei formidabili e decisivi avversari, Bonifacio, che in qualità di comandante dell'Africa controllava la fondamentale fornitura di grano per la città di Roma, e i Visigoti, i quali riconobbero legittimi successori di Onorio la loro regina Galla Placidia e Valentiniano III. La corte d'Oriente non era stata favorevole all'ascesa di Galla e Valentiniano, come testimoniato dal mancato riconoscimento dei loro titoli di augusta e nobilissimus, ma dovette riconoscere che la figlia di Teodosio I aveva molti sostenitori in Occidente e che era comunque meglio di un imperatore non dinastico; inoltre Teodosio II aveva avuto solo due figlie fino a quel momento (né ebbe in seguito figli maschi), mentre il figlio di Galla garantiva la continuità della casata di Teodosio. L'imperatore d'Oriente decise allora di porre il cugino sul trono d'Occidente e organizzò una spedizione per rovesciare Giovanni. Galla e Valentiniano videro riconosciuti i loro titoli, mentre il 24/10/424 Valentiniano fu nominato cesare d'Occidente all'inizio della spedizione in Italia. L'esercito romano d'Oriente si divise in tre gruppi, con Galla e Valentiniano a seguito del contingente terrestre comandato dal generale Aspare, il quale occupò Salona, risalì l'Istria e puntò su Aquileia, centro nevralgico della zona, che fu catturata molto facilmente e dove si insediarono il cesare d'Occidente con la sua augusta madre. Aspare, invece, discese su Ravenna, dove si trovava Giovanni, e la prese facilmente, probabilmente grazie al sostegno della fazione favorevole a Galla. Aspare catturò Giovanni e lo inviò ad Aquileia da Galla, la quale ordinò che gli fosse tagliata la mano destra, che fosse legato ad un asino ed esposto per le strade di Ravenna al pubblico ludibrio e che fosse infine decapitato nel circo (maggio 425). Durante il suo governo, Galla si trovò a dover gestire equilibratamente diverse figure forti, tra cui Felice, Bonifacio ed Ezio. Galla non era certo felice del potere ottenuto da Ezio, cui rimase sempre ostile, ma dovette accettarlo in quanto non le era possibile sottrarglielo. Mentre Ezio contrastava con successo i Visigoti e i Franchi in Gallia, aumentava a corte l'influenza di Felice, che si vide confermare il proprio potere con le nomine ricevute da Galla a console (428) e poi a patricius (429). Tra i tre uomini forti, quello che rimase maggiormente insoddisfatto era proprio il principale sostenitore di Galla, Bonifacio. Scomparso dalla scena Felice, Galla Placidia si trovò a dover scegliere tra Ezio, che disprezzava, e Bonifacio, che era stato però il responsabile della perdita dell'Africa. L'augusta, forse consigliata da quei cortigiani che erano stati sostenitori di Felice e che temevano le ritorsioni di Ezio, sottrasse al generale impegnato in Gallia il titolo di magister utriusque militiae per darlo a Bonifacio, che elevò anche al rango di patricius per metterlo al di sopra di Ezio, che sarebbe stato console per il 432. Bonifacio, forte del sostegno dell'augusta, decise di passare alle vie di fatto contro il suo avversario, dando inizio ad una guerra civile tra i due uomini forti dell'Impero romano d'Occidente. La scelta di Galla di puntare su Bonifacio sembrò vincente, quando questi sconfisse Ezio nella battaglia di Ravenna (gennaio 432) e lo costrinse a fuggire prima a Roma poi tra i suoi amici Unni; Bonifacio, però, morì a seguito delle ferite riportate nello scontro e il suo successore alla carica di magister utriusque militiae, il genero Sebastiano, non riuscì ad opporsi a Ezio e ai suoi alleati unni. Galla si trovò quindi con Ezio ulteriormente rafforzato dalla morte dei suoi possibili antagonisti e fu costretta a restituirgli la carica di magister utriusque militiae e a conferirgli il patriziato. Ezio ebbe il merito di concludere una pace con i Vandali (trattato di Trigezio, 11/2/435), che riconosceva lo status quo e segnò l'inizio di un periodo di pace. Nel 437 Valentiniano compì diciotto anni e con la sua maggiore età terminò la reggenza di Galla, che però continuò ad esercitare un'enorme influenza a corte. Con la scomparsa di Valentiniano III (datata 455, cinque anni dopo la morte della madre Galla Placidia) si chiuse il capitolo storico legato alla dinastia teodosiana e Ravenna si avviò verso un inesorabile declino. Nel 474, durante il regno di Zenone a Costantinopoli, il patrizio Giulio Nepote, comes della Dalmazia, appoggiato dall'Impero d'Oriente, reclamò per sé il trono d'Occidente, e, giunto al Porto della città di Roma, depose l'Imperatore Glicerio e lo costrinse a farsi vescovo, mentre egli stesso si fece incoronare imperatore a Roma. Dopo pochi mesi di regno, tuttavia, nel 475, fu costretto da una rivolta dell'esercito d'Italia condotto dal patrizio Oreste ad abbandonare il trono e a fuggire a bordo di una nave a Salona, in Dalmazia, dove rimase per cinque anni; nel 480 fu in seguito massacrato dai suoi stessi uomini. Nel frattempo l'esercito d'Italia nominò nuovo imperatore Romolo Augusto, un giovinetto figlio del patrizio Oreste. Odoacre, tuttavia, il comandante di truppe mercenarie di Sciri e altri barbari al servizio di Roma, nel 476 si rivoltò, reclamando per sé e per le sue truppe un terzo dell'Italia e fece uccidere il patrizio Oreste a Piacenza, e il fratello di Oreste, Paolo, nella Pineta vicino a Classe, il porto di Ravenna. Entrato poi a Ravenna, depose Romolo Augusto dal trono, ma avendo pietà di lui, vista la sua giovane età, lo risparmiò, permettendogli di vivere in esilio in Campania con i suoi parenti garantendogli addirittura una rendita di sei mila solidi d'oro. Fece poi inviare un'ambasceria composta da senatori a Costantinopoli, presso l'imperatore Zenone. Zenone, riflettuto sul da farsi, negò aiuti a Nepote e rispose all'ambasceria del senato romano, accettando Odoacre come patrizio, ma a patto che quest'ultimo accettasse come suo imperatore d'Occidente Giulio Nepote, in esilio in Dalmazia. Nonostante l'imperatore nominale d'Occidente rimanesse in Dalmazia, Odoacre fece coniare a Ravenna monete in suo nome. Nel 480 Giulio Nepote fu assassinato a Salona dai suoi stessi uomini. L'Impero romano d'Occidente era caduto, anche se per una rivolta interna (l'usurpazione di Odoacre) e non per cause propriamente esterne (Odoacre, seppur di origini barbariche, faceva parte dell'esercito romano). Archeologia della Ravenna cristiana e capitale imperiale Quando Onorio giunse a Ravenna (402), la città non disponeva di un palazzo imperiale. Esso fu fatto costruire sul praetorium del praefectus classis. Il praetorium si affacciava sulla Fossa Augusta: il canale fu completamente interrato, diventando la Platea maior, l'arteria principale della città. Il palazzo imperiale si configurava come un complesso di edifici: palazzo pubblico, residenze private, caserma, chiesa palatina, giardini e corti porticate. Sull'altro lato della Plateia maior fu fatto costruire l'ippodromo. Gli imperatori romani festeggiavano i propri 10, 20 e 30 anni di impero. Onorio celebrò in città i suoi Tricennali; prima di lui, Diocleziano a Ravenna celebrò il consolato. In seguito all'insediamento della corte imperiale in città, il vescovo Orso trasferì la sede episcopale da Classe a Ravenna. Orso fece costruire la ecclesìa catholica, cioè la cattedrale, dedicandola alla Hagìa Anástasis, ovvero alla Santa Resurrezione. Appartiene allo stesso periodo la basilica di San Lorenzo in Cesarea. Localizzata a meridione della città, all'esterno dell'area urbana, l'edificio religioso sostituì presumibilmente un santuario legato all'area cimiteriale. Questo edificio fu voluto dall'imperatore Onorio, così come l'Apostoleion, ovvero una chiesa dedicata ai Dodici apostoli. Nello stesso periodo fu restaurata la cinta muraria. Fu poi aggiunto un nuovo tratto: essa incluse, per la prima volta, la nuova area a nord del fiumicello Padenna; inoltre, a sud racchiuse l'area dei prati, che fino ad allora si era trovata per la maggior parte fuori del perimetro difensivo. La lunghezza complessiva della cinta raggiunse i 5 km. Si ritiene che le mura fossero alte tra i 4 e i 5 m. Il fiume Lamone che, proveniente da Faenza, passava a pochi km dalla città, fu deviato. Un ramo fu fatto scorrere lungo le mura per alimentare i fossati, mentre il corso principale venne arginato e fu fatto girare attorno alle mura di settentrione per poi riprendere il suo percorso verso Nord. Alla morte di Onorio (423), la sorella Galla Placidia, vedova dell'imperatore Costanzo III, riuscì ad ottenere la reggenza dell'Impero in nome del figlio Valentiniano III, di soli 6 anni. Galla Placidia giunse a Ravenna nel 424 e continuò l'azione di monumentalizzazione della città, che aveva avviato Onorio, per un quarto di secolo, fino al 450. La sovrana commissionò la costruzione della Basilica di San Giovanni Evangelista (chiesa palatina fondata da Galla Placidia presso il porto), con la quale scioglieva un voto fatto durante il periglioso viaggio che l'aveva condotta da Costantinopoli a Ravenna via mare. In un'altra parte della città, ad ovest del Padenna e a nord del Fiumicello Padenna, fece costruire la chiesa di Santa Croce, una Domus (oggi chiamata "Domus di Galla Placidia") e un palazzo dedicato al figlio Valentiniano. Vicino alla chiesa di Santa Croce (oggi visibile solo parzialmente) fu edificato un sacello che oggi viene denominato «mausoleo di Galla Placidia». La sovrana fece costruire il mausoleo per sé, per il marito Costanzo e per il fratello Onorio, ma non vi trovò sepoltura. Morì infatti a Roma il 27/11/450 e fu sepolta nella città eterna. Negli anni dopo il 425 l'Arco di Claudio assume il nome di Porta Aurea, come l'omonima porta delle mura di Costantinopoli, per commemorare la vittoria di Teodosio II sul tiranno usurpato. Alla metà del secolo la cattedrale venne ampiamente ristrutturata per volontà del vescovo Neone, che vi aggiunse, a fianco, il Palazzo episcopale e il battistero (chiamato oggi Battistero Neoniano). Successivamente, la chiesa prese il nome di Basilica Ursiana, dal vescovo Orso. Risale allo stesso periodo, la scomparsa basilica petriana, fatta edificare a Classe dal vescovo San Pietro Crisologo. La pianta di Ravenna capitale rimase immutata fino all'epoca veneziana. Al tempo del re goto Teoderico (493-526) la Fossa Augusta, interratasi a causa dell'apporto continuo di materiale dal Po e dai suoi affluenti, fu definitivamente tombata. Porta Aurea (vedi supra) rimase in piedi fino al XVI sec., ultima delle vestigia imperiali a cadere. Le colonne della Porta vennero sparpagliate come trofei tra le varie chiese di Ravenna; una parte giunse addirittura a Venezia. Sculture di epoca romana decorano ancora la chiesa di San Giovanni in Fonte.

Ville romane

Durante l'Età del Bronzo, la regione viene interessata da insediamenti della cultura terramare nella parte occidentale, mentre la parte orientale è interessata dalla civiltà appenninica. Alla fine del XIII secolo la civiltà terramaricola scompare per motivi non ancora del tutto chiari e la zona del bolognese diventa cruciale per l'affermarsi della civiltà villanoviana prima e degli Etruschi poi, i quali si diffondono per tutta la regione e la rendono crocevia di importanti traffici commerciali. Esempio di questa civiltà è il sito archeologico di Kainua, antica città vicino l'attuale Marzabotto. I Romani arrivano in Emilia-Romagna nel III secolo a.C. fondando le prime colonie lungo il tracciato della Via Aemilia. In Età Augustea la regione viene inserita nella Regio VIII. Successivamente la regione viene divisa: l'area occidentale diviene Emilia con capoluogo Bologna e l'area orientale la Flaminia con capoluogo Ravenna che diviene centro strategico fino a diventare sede imperiale nel 402 d.C.
Strutture murarie, piani stradali, un pozzo e una tomba con due scheletri sovrapposti. Le evidenze archeologiche portate in luce durante i recenti lavori in Via Roma, a Meldola, non solo trovano ampio riscontro presso le fonti storiografiche, ma permettono di ricostruire un quadro topografico particolarmente affidabile della città tardo medievale e rinascimentale. Lo scavo archeologico è stato avviato per consentire l’adeguamento dell'impianto di illuminazione pubblica in Via Roma. Proprio per la finalità dell'intervento, gli scavi si sono limitati alla realizzazione di trincee e di saggi poco profondi, compresi tra cm. 40 e m. 1,30: considerando che i mosaici della vicina via Cavour, datati al VI sec. d.C., sono stati rinvenuti ad una profondità di circa 4 metri rispetto l’attuale piano di calpestio, si comprende come le quote raggiunte nel corso di questi lavori non possano che riferirsi a strati “più recenti” rispetto ai livelli romani e tardoantichi per cui la città di Meldola è famosa. Le indagini archeologiche, della Soprintendenza per i Beni Archeologici per l’Emilia-Romagna hanno documentato in più punti della via la persistenza di testimonianze archeologiche di particolare rilievo, fortunatamente non intaccate (se non in parte) dai lavori di riqualificazione urbana realizzati a partire dagli anni Trenta del secolo scorso. Va purtroppo registrato che, nel corso degli anni, tali lavori hanno profondamente mutato le regolari sovrapposizioni che nella storia hanno determinato l’attuale livello del piano stradale, distruggendo (persino con cognizione di causa) la maggior parte dei resti archeologici che certamente giacevano sotto il piano di calpestio della via. Il tratto dell’attuale via Roma assume una rilevanza archeologica di primo piano sia nel contesto storico e urbanistico della città di Meldola, che nel quadro della viabilità della Valle del Bidente, forse da prima dell’arrivo del mondo romano e del riassetto territoriale che tale conquista ha comportato nel comprensorio di Via Emilia tra Cesena e Forlì. Che la Valle del Bidente fosse in antico una delle principali vie di comunicazione naturali tra i centri appenninici, umbri ed il settore pedemontano, dominato dalla presenza gallica, è ormai un dato accertato e comunemente riconosciuto. La via, che ancora in periodo romano collegava l’emporio commerciale di Forlì con la città di Arezzo, assunse un ruolo rilevante nello sviluppo di centri quali Mevaniola, Galeata o la stessa Meldola, dove importanti documentazioni archeologiche databili tra il III-II sec. a.C. ed il VI sec. d.C. attestano uno sviluppo sociale ed economico di primo piano. Oltre all’attuale via Roma, a costituire il tratto meldolese della via petrosa o romipeta vi è via Cavour, dove furono scoperti i resti di una villa, databile al VI sec. d.C., a seguito di scavi eseguiti negli anni Trenta e nei primi anni Cinquanta. La villa, caratterizzata da ampi mosaici di periodo teodoriciano, probabilmente confinava ad est con la parte meridionale di via Roma, anche se tale ipotesi è attualmente al vaglio della Sovrintendenza che da lungo tempo si occupa delle problematiche connesse al complesso tardoantico meldolese. Secondo le fonti del XIV-XVI sec., i recenti ritrovamenti archeologici sono compresi all’interno dell’antico burgus magnus o contrata magna, delimitato dalle cosiddette porte di San Nicolò e di Sant’Andrea, non più visibili e posizionate rispettivamente a sud e a nord. All’interno del borgo vi erano inoltre la chiesa di Sant’Andrea (nei pressi dell’omonima porta, anch’essa ormai scomparsa), di cui abbiamo notizia già nel 1284 e la chiesa di San Nicolò, attualmente al civico 3 di via Roma. Ecco in dettaglio cos'è stato trovato: - Nell’estremità meridionale di via Roma, adiacente a Piazza F. Orsini, è stato individuato l’angolo nord-est di un ambiente, delimitato da muri spessi circa 70 cm., in sassi fluviali e laterizi posti in opera con tecniche diversificate. Purtroppo non è possibile definire né i limiti originari della struttura rinvenuta (che si presenta delimitata, ad ovest, dall’attuale fabbricato del Palazzo Comunale e fortemente intaccata da precedenti lavori pubblici sugli altri lati) né una datazione affidabile (per l'assenza di materiale ceramico o di altra natura). Tuttavia, sulla base della sequenza fisica e dei frammenti presenti nel contesto stratigrafico, si propende per un collocamento cronologico in periodo tardo medievale. L'ambiente trovato all'estremità meridionale di via Roma. Lo stato di conservazione dell'ambiente rende incerta anche l'interpretazione sulla sua destinazione d’uso anche se alcune considerazioni di ambito topografico farebbero propendere per una connessione tra la struttura e l’impianto costruttivo della villa scoperta in via Cavour. - Nel settore antistante il loggiato del Palazzo del Comune è stato scoperto un piano stradale costituito da ciottoli, sassi fluviali, frammenti laterizi e cocciopesto. Conservatosi per un tratto lungo circa 5 m., largo circa 1,10 m. e con allineamento nord-est/sud-ovest, anch’esso non mantiene i limiti originari mentre l’interno al momento del rinvenimento si presentava in buon stato di conservazione. I resti rilevati sono sufficienti a definire propriamente le caratteristiche costruttive, caratterizzate principalmente da sassi fluviali posti di piatto sull’intero piano stradale, dove si distinguono ancora tracce di orme carraie, eccetto che all’estremità meridionale dove è stato documentato un “setto” costituito da sassi conficcati nel terreno, molto probabilmente finalizzato alla stabilità della pavimentazione. Nella Descrizione della Terra di Meldola e della Fortezza si ricorda come “…la strada che va ritta da una porta all’altra è piana lastricata e assai bella…”: nonostante l’accezione del termine “lastricata”, che potrebbe essere attribuito secondo un’interpretazione più ampia anche al piano stradale scoperto, è possibile riscontrare in questo passo del documento -datato al 1596- una descrizione aderente alle caratteristiche dell’evidenza archeologica riportata alla luce, che ha inoltre restituito materiale ceramico successivo alla seconda metà del XV sec. d.C. - A ridosso delle fondazioni realizzate per l’edificazione del Palazzo Comunale è stata scoperta una struttura muraria, particolarmente interessante dal punto di vista costruttivo, lunga circa 8 m e larga 1,80, con allineamento nord-est/sud-ovest. È possibile suddividere la struttura in due porzioni, ciascuna lunga circa 4 m: la prima, più a sud, è costituita da poderosi blocchi di arenaria (spungone) posti in opera su un basamento di mattoni manubriati; la seconda è invece caratterizzata da sassi posti in opera a secco. L’estremità meridionale del muro risulta essere aggettante verso il centro della strada, assumendo quasi un allineamento nord-ovest/sud-est. A seguito delle analisi tecniche e stratigrafiche, dove si evince il reimpiego dei blocchi di arenaria e dei laterizi manubriati posti alla base, si è proposto di vedere nella struttura i resti di un tratto di fortificazione della città, forse comprendenti le vestigia della porta di San Nicolò (con riferimento all’aggetto della porzione meridionale del muro), successivamente reimpiegato nelle fondazioni dell’edificio precedente all’attuale Palazzo Comunale. I materiali scoperti in prossimità della struttura non permettono di datare con precisione la costruzione, essendo stati individuati all’interno dei fognoli realizzati intorno al XVIII sec. tagliando trasversalmente il muro. - All’altezza del civico 73 è stato riportato alla luce un secondo tratto di piano stradale, corrispondente per tecnica di realizzazione e materiali utilizzati a quanto descritto a proposito del piano al punto 2. Tale segmento misura circa m. 2,80x1,60 e sul piano topografico è certamente da porre in relazione con il tratto antistante al Palazzo Comunale. - La presenza di un pozzo era segnalata da una targa posta sulla facciata esterna di un fabbricato abitativo sito in via Roma (angolo via alla Rocca) al civico 75. La lapide, in sasso spungone, fu posta sul muro nel 1756 e porta incisa la scritta “B HINC RECTA PED. IV”, cioè "(il pozzo) B è da qui in linea retta a 4 piedi". In effetti, scavando davanti a quest’abitazione, è stato trovato un pozzo con incamiciatura a mattoni messi di taglio ricoperti da un sottile strato di malta biancastra. All'interno del pozzo, i subacquei hanno rinvenuto un’iscrizione, riconducibile al XVIII sec., in cui un uomo evidentemente caduto nel pozzo ha inciso il proprio nome, la data e l'occasione dello spiacevole infortunio. La copertura del pozzo, in mattoni disposti a creare una volta, è costituita da una lastra di chiusura rettangolare in pietra arenaria, dotata di perno e anella in ferro per il sollevamento. La copertura molto probabilmente corrisponde cronologicamente ai lavori per lo spurgo dell’acquedotto, eseguiti nell’estate del 1756 ristrutturando un preesistente condotto, collegato con i pozzi romani, esistente nell’area di S. Giovanni. Da un’indagine più accurata, il pozzo settecentesco (di m. 1,65 di diametro) sembra insistere su un’altra struttura puteale di sezione trasversale subquadrangolare in blocchi di pietra spungone, dal quale, a m. 4,30 di profondità, diparte un cunicolo in direzione WSW presumibilmente a ricollegarsi con l’acquedotto romano di età flavia. - In occasione della realizzazione di una trincea profonda circa 70 cm sono stati scoperti i resti di una tomba a fossa terragna, con foderatura in sassi fluviali, in corrispondenza del numero civico 82. La tomba, con allineamento est-ovest, è risultata tagliata sul lato est dal posizionamento del collettore fognario principale, a nord da un fognolo di servizio, mentre la parte sud è stata inglobata nelle fondazioni del civico 82. Al momento del ritrovamento della copertura restava un unico blocco di arenaria, posto a 3/4 della sepoltura in direzione est, al quale si poggiava una spalletta dello stesso materiale; la foderatura in sassi su entrambi i lati risultava fortemente danneggiata, mentre invece si era mantenuto il riempimento interno per via del blocco di arenaria che ne ha garantito la conservazione. Lo scavo della tomba ha restituito i resti di due scheletri sovrapposti: il primo, in alto, conservava solamente parte degli arti inferiori, mentre del secondo, più in basso, restava la porzione dal bacino in giù, fino alle tibie, in buona parte sepolte ancora sotto le fondazioni dell’edificio al numero 82. I resti del secondo scheletro si presentavano in buono stato di conservazione, così come una fusaiola in ceramica, trovata sotto le ossa del bacino, databile tra la seconda metà del XVI sec. e la prima del XVII sec.. Dove adesso sono ubicate le case corrispondenti ai civici 70-86 doveva trovarsi la chiesa di Sant’Andrea, caduta in rovina nel corso del XIX sec.. È interessante a proposito la richiesta di ampliamento del cimitero attiguo alla chiesa datata al 1453: molto probabilmente la tomba scoperta nel corso delle operazioni di sorveglianza archeologica è da mettere in connessione con la presenza di un’area cimiteriale in prossimità dell’antica chiesa, ipotesi confermata da ulteriori ritrovamenti del medesimo tipo effettuati nella stessa zona . - Poco oltre il ritrovamento della tomba, presso i civici 84-86, è stato rinvenuto un lacerto murario, di dimensioni ridotte e in cattivo stato di conservazione, costituito principalmente da sassi e frammenti laterizi posti in opera per mezzo di tecniche diversificate. La sequenza fisica delle unità stratigrafiche che lo compongono fanno pensare a più fasi di costruzione o, più semplicemente, a molteplici interventi di “manutenzione” edilizia. Purtroppo i lavori pubblici che in passato hanno interessato tale settore di via Roma non solo hanno fortemente danneggiato la consistenza dell’evidenza archeologica, ma hanno inoltre provveduto a decontestualizzarla da possibili altre testimonianze scavando tutt’intorno. Oltre agli elementi di ordine costruttivo, la struttura ha conservato l’allineamento originario, posto sull’asse nord-ovest sud-est, ma ciò non basta a proporre una interpretazione chiara dell’evidenza, forse connessa al sistema di difesa della città. Come si può evincere da questo breve resoconto, le testimonianze archeologiche scoperte in via Roma, nonostante l’intrinseco stato di conservazione, complessivamente accettabile, risultano penalizzate dall’isolamento determinato dagli interventi passati che hanno riguardato il sottosuolo, senza i quali si sarebbe probabilmente ottenuto un quadro più chiaro dell’assetto topografico della città. Fortunatamente le notizie storiografiche permettono di colmare alcune lacune interpretative e di rivedere, in accordo con i nuovi rinvenimenti archeologici, diverse ipotesi ricostruttive che mal si accordano con la localizzazione dei resti archeologici individuati.
11 preporuka/e lokalaca
Meldola
11 preporuka/e lokalaca
Strutture murarie, piani stradali, un pozzo e una tomba con due scheletri sovrapposti. Le evidenze archeologiche portate in luce durante i recenti lavori in Via Roma, a Meldola, non solo trovano ampio riscontro presso le fonti storiografiche, ma permettono di ricostruire un quadro topografico particolarmente affidabile della città tardo medievale e rinascimentale. Lo scavo archeologico è stato avviato per consentire l’adeguamento dell'impianto di illuminazione pubblica in Via Roma. Proprio per la finalità dell'intervento, gli scavi si sono limitati alla realizzazione di trincee e di saggi poco profondi, compresi tra cm. 40 e m. 1,30: considerando che i mosaici della vicina via Cavour, datati al VI sec. d.C., sono stati rinvenuti ad una profondità di circa 4 metri rispetto l’attuale piano di calpestio, si comprende come le quote raggiunte nel corso di questi lavori non possano che riferirsi a strati “più recenti” rispetto ai livelli romani e tardoantichi per cui la città di Meldola è famosa. Le indagini archeologiche, della Soprintendenza per i Beni Archeologici per l’Emilia-Romagna hanno documentato in più punti della via la persistenza di testimonianze archeologiche di particolare rilievo, fortunatamente non intaccate (se non in parte) dai lavori di riqualificazione urbana realizzati a partire dagli anni Trenta del secolo scorso. Va purtroppo registrato che, nel corso degli anni, tali lavori hanno profondamente mutato le regolari sovrapposizioni che nella storia hanno determinato l’attuale livello del piano stradale, distruggendo (persino con cognizione di causa) la maggior parte dei resti archeologici che certamente giacevano sotto il piano di calpestio della via. Il tratto dell’attuale via Roma assume una rilevanza archeologica di primo piano sia nel contesto storico e urbanistico della città di Meldola, che nel quadro della viabilità della Valle del Bidente, forse da prima dell’arrivo del mondo romano e del riassetto territoriale che tale conquista ha comportato nel comprensorio di Via Emilia tra Cesena e Forlì. Che la Valle del Bidente fosse in antico una delle principali vie di comunicazione naturali tra i centri appenninici, umbri ed il settore pedemontano, dominato dalla presenza gallica, è ormai un dato accertato e comunemente riconosciuto. La via, che ancora in periodo romano collegava l’emporio commerciale di Forlì con la città di Arezzo, assunse un ruolo rilevante nello sviluppo di centri quali Mevaniola, Galeata o la stessa Meldola, dove importanti documentazioni archeologiche databili tra il III-II sec. a.C. ed il VI sec. d.C. attestano uno sviluppo sociale ed economico di primo piano. Oltre all’attuale via Roma, a costituire il tratto meldolese della via petrosa o romipeta vi è via Cavour, dove furono scoperti i resti di una villa, databile al VI sec. d.C., a seguito di scavi eseguiti negli anni Trenta e nei primi anni Cinquanta. La villa, caratterizzata da ampi mosaici di periodo teodoriciano, probabilmente confinava ad est con la parte meridionale di via Roma, anche se tale ipotesi è attualmente al vaglio della Sovrintendenza che da lungo tempo si occupa delle problematiche connesse al complesso tardoantico meldolese. Secondo le fonti del XIV-XVI sec., i recenti ritrovamenti archeologici sono compresi all’interno dell’antico burgus magnus o contrata magna, delimitato dalle cosiddette porte di San Nicolò e di Sant’Andrea, non più visibili e posizionate rispettivamente a sud e a nord. All’interno del borgo vi erano inoltre la chiesa di Sant’Andrea (nei pressi dell’omonima porta, anch’essa ormai scomparsa), di cui abbiamo notizia già nel 1284 e la chiesa di San Nicolò, attualmente al civico 3 di via Roma. Ecco in dettaglio cos'è stato trovato: - Nell’estremità meridionale di via Roma, adiacente a Piazza F. Orsini, è stato individuato l’angolo nord-est di un ambiente, delimitato da muri spessi circa 70 cm., in sassi fluviali e laterizi posti in opera con tecniche diversificate. Purtroppo non è possibile definire né i limiti originari della struttura rinvenuta (che si presenta delimitata, ad ovest, dall’attuale fabbricato del Palazzo Comunale e fortemente intaccata da precedenti lavori pubblici sugli altri lati) né una datazione affidabile (per l'assenza di materiale ceramico o di altra natura). Tuttavia, sulla base della sequenza fisica e dei frammenti presenti nel contesto stratigrafico, si propende per un collocamento cronologico in periodo tardo medievale. L'ambiente trovato all'estremità meridionale di via Roma. Lo stato di conservazione dell'ambiente rende incerta anche l'interpretazione sulla sua destinazione d’uso anche se alcune considerazioni di ambito topografico farebbero propendere per una connessione tra la struttura e l’impianto costruttivo della villa scoperta in via Cavour. - Nel settore antistante il loggiato del Palazzo del Comune è stato scoperto un piano stradale costituito da ciottoli, sassi fluviali, frammenti laterizi e cocciopesto. Conservatosi per un tratto lungo circa 5 m., largo circa 1,10 m. e con allineamento nord-est/sud-ovest, anch’esso non mantiene i limiti originari mentre l’interno al momento del rinvenimento si presentava in buon stato di conservazione. I resti rilevati sono sufficienti a definire propriamente le caratteristiche costruttive, caratterizzate principalmente da sassi fluviali posti di piatto sull’intero piano stradale, dove si distinguono ancora tracce di orme carraie, eccetto che all’estremità meridionale dove è stato documentato un “setto” costituito da sassi conficcati nel terreno, molto probabilmente finalizzato alla stabilità della pavimentazione. Nella Descrizione della Terra di Meldola e della Fortezza si ricorda come “…la strada che va ritta da una porta all’altra è piana lastricata e assai bella…”: nonostante l’accezione del termine “lastricata”, che potrebbe essere attribuito secondo un’interpretazione più ampia anche al piano stradale scoperto, è possibile riscontrare in questo passo del documento -datato al 1596- una descrizione aderente alle caratteristiche dell’evidenza archeologica riportata alla luce, che ha inoltre restituito materiale ceramico successivo alla seconda metà del XV sec. d.C. - A ridosso delle fondazioni realizzate per l’edificazione del Palazzo Comunale è stata scoperta una struttura muraria, particolarmente interessante dal punto di vista costruttivo, lunga circa 8 m e larga 1,80, con allineamento nord-est/sud-ovest. È possibile suddividere la struttura in due porzioni, ciascuna lunga circa 4 m: la prima, più a sud, è costituita da poderosi blocchi di arenaria (spungone) posti in opera su un basamento di mattoni manubriati; la seconda è invece caratterizzata da sassi posti in opera a secco. L’estremità meridionale del muro risulta essere aggettante verso il centro della strada, assumendo quasi un allineamento nord-ovest/sud-est. A seguito delle analisi tecniche e stratigrafiche, dove si evince il reimpiego dei blocchi di arenaria e dei laterizi manubriati posti alla base, si è proposto di vedere nella struttura i resti di un tratto di fortificazione della città, forse comprendenti le vestigia della porta di San Nicolò (con riferimento all’aggetto della porzione meridionale del muro), successivamente reimpiegato nelle fondazioni dell’edificio precedente all’attuale Palazzo Comunale. I materiali scoperti in prossimità della struttura non permettono di datare con precisione la costruzione, essendo stati individuati all’interno dei fognoli realizzati intorno al XVIII sec. tagliando trasversalmente il muro. - All’altezza del civico 73 è stato riportato alla luce un secondo tratto di piano stradale, corrispondente per tecnica di realizzazione e materiali utilizzati a quanto descritto a proposito del piano al punto 2. Tale segmento misura circa m. 2,80x1,60 e sul piano topografico è certamente da porre in relazione con il tratto antistante al Palazzo Comunale. - La presenza di un pozzo era segnalata da una targa posta sulla facciata esterna di un fabbricato abitativo sito in via Roma (angolo via alla Rocca) al civico 75. La lapide, in sasso spungone, fu posta sul muro nel 1756 e porta incisa la scritta “B HINC RECTA PED. IV”, cioè "(il pozzo) B è da qui in linea retta a 4 piedi". In effetti, scavando davanti a quest’abitazione, è stato trovato un pozzo con incamiciatura a mattoni messi di taglio ricoperti da un sottile strato di malta biancastra. All'interno del pozzo, i subacquei hanno rinvenuto un’iscrizione, riconducibile al XVIII sec., in cui un uomo evidentemente caduto nel pozzo ha inciso il proprio nome, la data e l'occasione dello spiacevole infortunio. La copertura del pozzo, in mattoni disposti a creare una volta, è costituita da una lastra di chiusura rettangolare in pietra arenaria, dotata di perno e anella in ferro per il sollevamento. La copertura molto probabilmente corrisponde cronologicamente ai lavori per lo spurgo dell’acquedotto, eseguiti nell’estate del 1756 ristrutturando un preesistente condotto, collegato con i pozzi romani, esistente nell’area di S. Giovanni. Da un’indagine più accurata, il pozzo settecentesco (di m. 1,65 di diametro) sembra insistere su un’altra struttura puteale di sezione trasversale subquadrangolare in blocchi di pietra spungone, dal quale, a m. 4,30 di profondità, diparte un cunicolo in direzione WSW presumibilmente a ricollegarsi con l’acquedotto romano di età flavia. - In occasione della realizzazione di una trincea profonda circa 70 cm sono stati scoperti i resti di una tomba a fossa terragna, con foderatura in sassi fluviali, in corrispondenza del numero civico 82. La tomba, con allineamento est-ovest, è risultata tagliata sul lato est dal posizionamento del collettore fognario principale, a nord da un fognolo di servizio, mentre la parte sud è stata inglobata nelle fondazioni del civico 82. Al momento del ritrovamento della copertura restava un unico blocco di arenaria, posto a 3/4 della sepoltura in direzione est, al quale si poggiava una spalletta dello stesso materiale; la foderatura in sassi su entrambi i lati risultava fortemente danneggiata, mentre invece si era mantenuto il riempimento interno per via del blocco di arenaria che ne ha garantito la conservazione. Lo scavo della tomba ha restituito i resti di due scheletri sovrapposti: il primo, in alto, conservava solamente parte degli arti inferiori, mentre del secondo, più in basso, restava la porzione dal bacino in giù, fino alle tibie, in buona parte sepolte ancora sotto le fondazioni dell’edificio al numero 82. I resti del secondo scheletro si presentavano in buono stato di conservazione, così come una fusaiola in ceramica, trovata sotto le ossa del bacino, databile tra la seconda metà del XVI sec. e la prima del XVII sec.. Dove adesso sono ubicate le case corrispondenti ai civici 70-86 doveva trovarsi la chiesa di Sant’Andrea, caduta in rovina nel corso del XIX sec.. È interessante a proposito la richiesta di ampliamento del cimitero attiguo alla chiesa datata al 1453: molto probabilmente la tomba scoperta nel corso delle operazioni di sorveglianza archeologica è da mettere in connessione con la presenza di un’area cimiteriale in prossimità dell’antica chiesa, ipotesi confermata da ulteriori ritrovamenti del medesimo tipo effettuati nella stessa zona . - Poco oltre il ritrovamento della tomba, presso i civici 84-86, è stato rinvenuto un lacerto murario, di dimensioni ridotte e in cattivo stato di conservazione, costituito principalmente da sassi e frammenti laterizi posti in opera per mezzo di tecniche diversificate. La sequenza fisica delle unità stratigrafiche che lo compongono fanno pensare a più fasi di costruzione o, più semplicemente, a molteplici interventi di “manutenzione” edilizia. Purtroppo i lavori pubblici che in passato hanno interessato tale settore di via Roma non solo hanno fortemente danneggiato la consistenza dell’evidenza archeologica, ma hanno inoltre provveduto a decontestualizzarla da possibili altre testimonianze scavando tutt’intorno. Oltre agli elementi di ordine costruttivo, la struttura ha conservato l’allineamento originario, posto sull’asse nord-ovest sud-est, ma ciò non basta a proporre una interpretazione chiara dell’evidenza, forse connessa al sistema di difesa della città. Come si può evincere da questo breve resoconto, le testimonianze archeologiche scoperte in via Roma, nonostante l’intrinseco stato di conservazione, complessivamente accettabile, risultano penalizzate dall’isolamento determinato dagli interventi passati che hanno riguardato il sottosuolo, senza i quali si sarebbe probabilmente ottenuto un quadro più chiaro dell’assetto topografico della città. Fortunatamente le notizie storiografiche permettono di colmare alcune lacune interpretative e di rivedere, in accordo con i nuovi rinvenimenti archeologici, diverse ipotesi ricostruttive che mal si accordano con la localizzazione dei resti archeologici individuati.
Struttura abitativa villa urbano-rustica Mensa Matelica Ravenna Ambito culturale romano secc. I a.C./ V d.C. Sulla sponda sinistra del fiume Savio, fra il 1927 e il 1957 in seguito a rinvenimenti fortuiti e nel 1987-1989 in seguito agli scavi eseguiti per il Canale Emiliano-Romagnolo, furono portati alla luce importanti resti relativi ad una villa urbano-rustica di età romana, consistenti in: strutture murarie, un pavimento in mosaico e due in opus spicatum. Sulla base dei dati di scavo si è supposto che la villa abbia avuto una continuità di vita dal I sec. a.C. al V sec. d.C. con trasformazioni funzionali consistenti. La villa fu individuata sulla sponda sinistra del fiume Savio, che poi l'ha in parte erosa, ad oriente della Via Dismano. I primi rinvenimenti si ebbero nell'alveo del fiume nel 1927, quando si recuperarono un frammento di statua marmorea raffigurante Apollo e tessere musive colorate. Seguì negli anni 1944-1945 il recupero di una vasca in pietra, anfore e frammenti di incrostazione marmorea. Negli anni 1951-1952, in seguito all'abbassamento del livello di magra del fiume Savio, nella sezione della scarpata fluviale di sinistra, furono notati i resti di una costruzione con vasto mosaico, visibile in sezione per 20 m, sovrapposto a due pavimenti in opus spicatum; si rinvennero inoltre lacerti di pavimenti in laterizi alternati ad altri in cocciopesto, forse pertinenti ad una vasca in marmo per impianto produttivo. E' nota, inoltre, l'esistenza di alcuni gradini in marmo che, utilizzati forse per scendere verso il fiume, giungevano fino al suo asse attuale. Sembra possibile ipotizzare che la villa, con la scalinata di marmo che scendeva verso l'antico letto del fiume, fosse dotata proprio su questa sponda di un prospetto scenografico. Nel 1957 si effettuarono saggi di scavo che portarono al rinvenimento di uno strato di 1,53 m di spessore, formato da cinque fra pavimenti e gettate di conglomerato sovrapposti e al di sotto uno strato di terra concotta. Il lato nord del pavimento era delimitato da un muro di pezzame laterizio; a maggior profondità si rinvennero tracce di muri laterizi con andamento divergente da quello delle strutture sovrastanti, probabilmente appartenenti ad un edificio di impianto diverso. Nella stessa area, di fronte al podere Cà Rossa II, fu messa in luce negli anni 1988-1989, durante i lavori di scavo per il canale Emiliano-Romagnolo che raggiunsero una profondità di ca. 9 m dal piano di campagna attuale, una struttura muraria lesenata e con fondazioni in sassi di fiume con andamento nord-sud, contraffortata verso ovest, da cui partiva un fognolo per lo scarico delle acque di grondaia verso il fiume. E' probabile che si trattasse di una porzione del muro perimetrale della villa precedentemente individuata. Si scoprì, inoltre, che il lato opposto del fiume era edificato con un'altra villa, anch'essa impiantata direttamente sulla sponda: si individuarono i resti di un muro, orientato perpendicolarmente al fiume e di un focolare, dunque da identificarsi con parte di una zona rustica.
Mensa
Struttura abitativa villa urbano-rustica Mensa Matelica Ravenna Ambito culturale romano secc. I a.C./ V d.C. Sulla sponda sinistra del fiume Savio, fra il 1927 e il 1957 in seguito a rinvenimenti fortuiti e nel 1987-1989 in seguito agli scavi eseguiti per il Canale Emiliano-Romagnolo, furono portati alla luce importanti resti relativi ad una villa urbano-rustica di età romana, consistenti in: strutture murarie, un pavimento in mosaico e due in opus spicatum. Sulla base dei dati di scavo si è supposto che la villa abbia avuto una continuità di vita dal I sec. a.C. al V sec. d.C. con trasformazioni funzionali consistenti. La villa fu individuata sulla sponda sinistra del fiume Savio, che poi l'ha in parte erosa, ad oriente della Via Dismano. I primi rinvenimenti si ebbero nell'alveo del fiume nel 1927, quando si recuperarono un frammento di statua marmorea raffigurante Apollo e tessere musive colorate. Seguì negli anni 1944-1945 il recupero di una vasca in pietra, anfore e frammenti di incrostazione marmorea. Negli anni 1951-1952, in seguito all'abbassamento del livello di magra del fiume Savio, nella sezione della scarpata fluviale di sinistra, furono notati i resti di una costruzione con vasto mosaico, visibile in sezione per 20 m, sovrapposto a due pavimenti in opus spicatum; si rinvennero inoltre lacerti di pavimenti in laterizi alternati ad altri in cocciopesto, forse pertinenti ad una vasca in marmo per impianto produttivo. E' nota, inoltre, l'esistenza di alcuni gradini in marmo che, utilizzati forse per scendere verso il fiume, giungevano fino al suo asse attuale. Sembra possibile ipotizzare che la villa, con la scalinata di marmo che scendeva verso l'antico letto del fiume, fosse dotata proprio su questa sponda di un prospetto scenografico. Nel 1957 si effettuarono saggi di scavo che portarono al rinvenimento di uno strato di 1,53 m di spessore, formato da cinque fra pavimenti e gettate di conglomerato sovrapposti e al di sotto uno strato di terra concotta. Il lato nord del pavimento era delimitato da un muro di pezzame laterizio; a maggior profondità si rinvennero tracce di muri laterizi con andamento divergente da quello delle strutture sovrastanti, probabilmente appartenenti ad un edificio di impianto diverso. Nella stessa area, di fronte al podere Cà Rossa II, fu messa in luce negli anni 1988-1989, durante i lavori di scavo per il canale Emiliano-Romagnolo che raggiunsero una profondità di ca. 9 m dal piano di campagna attuale, una struttura muraria lesenata e con fondazioni in sassi di fiume con andamento nord-sud, contraffortata verso ovest, da cui partiva un fognolo per lo scarico delle acque di grondaia verso il fiume. E' probabile che si trattasse di una porzione del muro perimetrale della villa precedentemente individuata. Si scoprì, inoltre, che il lato opposto del fiume era edificato con un'altra villa, anch'essa impiantata direttamente sulla sponda: si individuarono i resti di un muro, orientato perpendicolarmente al fiume e di un focolare, dunque da identificarsi con parte di una zona rustica.
Villa Romana di Russi Dove: via Fiumazzo, 25 | Russi A circa 20km a ovest di Ravenna, è una delle ville rustiche meglio conservate di tutta l’Italia settentrionale. Costruita per la produzione di cibo da destinarsi alla flotta militare romana di stanza a Classe, oggi si mostra come doveva apparire durante la prima epoca imperiale (I-II sec. d.C.).
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Russi
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Villa Romana di Russi Dove: via Fiumazzo, 25 | Russi A circa 20km a ovest di Ravenna, è una delle ville rustiche meglio conservate di tutta l’Italia settentrionale. Costruita per la produzione di cibo da destinarsi alla flotta militare romana di stanza a Classe, oggi si mostra come doveva apparire durante la prima epoca imperiale (I-II sec. d.C.).
Domus del chirurgo abitazione romana antica di Rimini La domus del chirurgo è un'abitazione romana della seconda metà del II secolo, scoperta nel 1989 a Rimini in piazza Luigi Ferrari e aperta al pubblico ben diciotto anni dopo, il 7/12/2007. Vi è stata rinvenuta una delle serie più complete di strumenti chirurgici di età romana, oggi al Museo della città di Rimini. Descrizione Il nome con cui è nota, "casa del chirurgo", si deve al corredo chirurgico rinvenuto: da una mensola originariamente posta sulla parete era caduta una scatola di bronzo, da cui si era rovesciato un gruppo di strumenti in ferro e bronzo utilizzati dal medico per i suoi interventi, pinze, bisturi, scalpelli, sonde e altri attrezzi, nonché bilance e misurini di bronzo; e ancora vasetti in terracotta, e un gruppo di vetri ormai irriconoscibili, pertinenti a fiale e ad altri contenitori di uso farmaceutico. Le stanze della domus si affacciavano tutte su un lungo corridoio che serviva da disimpegno e raccordo tra i diversi vani, e che a sua volta dava su un cortile. All'interno una stanza serviva al medico per visitare e operare i pazienti, più una taberna medica, un ambulatorio che dava sul cortile. Tra i vani è stata identificata anche la sala da pranzo, il triclinio, e la camera da letto, il cubicolo. La cucina e la piccola dispensa erano invece al secondo piano. La ristrutturazione della domus risale agli ultimi anni del II secolo o ai primi decenni del III. Fu abbandonata e mai più occupata dopo un incendio che la distrusse completamente; in mezzo alle macerie del crollo del secondo piano furono trovate circa 80 monete romane, quasi tutte d'argento, la più recente databile tra il 253 e il 258; la distruzione si può far risalire a questi anni, o poco posteriori. Il chirurgo Si suppone che il nome del medico fosse Eutyches (Eutiche) grazie all'iscrizione sul muro della sua Taberna Medica "Eutyches Homo Bonus", e che fosse un medico militare di origine orientale. Dai ritrovamenti, dai mosaici, dalle decorazioni e dalle numerose scritte in greco ritrovate sul vasellame, si ipotizza che Eutyches fosse di origine greca e amante del bello. A confermare l'origine ellenica di Eutyches c'è anche il piede della statua di Ermarco, filosofo discepolo di Epicuro, ritrovata nel giardino. Scoperta Durante la rimozione di un albero con un escavatore si scoprì dei frammenti di un affresco intrappolati tra le radici della pianta. Successivamente il ritrovamento venne segnalato al Dipartimento di Storia Culture Civiltà di Bologna e si procedette agli scavi a 1,5 metri sotto terra. L'attuale struttura che contiene i resti della domus e che consente al pubblico di vederla camminando su piattaforme sospese fu aperta nel 2007. Associazioni ambientalistiche, contrarie all'abbattimento di alberi per gli scavi archeologici, consegnarono il "Premio Attila" all'amministrazione comunale. Reperti archeologici All'interno della domus sono stati ritrovati centinaia di reperti: ferri chirurgici, vasellame da cucina, monete, una lunga serie di decorazioni e mosaici. Gli strumenti chirurgici ritrovati a Rimini rappresentano a oggi la più ricca collezione chirurgica antica del mondo, per varietà e numero degli oggetti: circa 150 pezzi utilizzati per intervenire su ferite e traumi ossei, più una serie di vasetti utilizzati per la preparazione e la conservazione dei medicinali. Nel corredo chirurgico spiccano vari bisturi, sonde, pinzette, tenaglie odontoiatriche, leve ortopediche, un trapano a bracci mobili e diversi ferri utilizzati per esportare calcoli urinari. La tipologia dei ferri chirurgici indica che il chirurgo riminese era un medico militare. Uno dei ritrovamenti più importanti fu il Cucchiaio di Diocle, pezzo unico al mondo, che serviva per estrarre le punte di freccia conficcate nel corpo: un manico di ferro termina con una lamina a forma di cucchiaio, forata al centro, in modo da bloccare ed estrarre la freccia. Era utilizzato dai medici che operavano sul campo di battaglia. Mosaici e affreschi Gli scavi archeologici hanno riportato alla luce molti mosaici ancora intatti e affreschi policromi. Tra i mosaici spicca Orfeo tra gli animali, ritrovato nella taberna medica, che vede al centro Orfeo circondato da animali in ascolto. I mosaici furono realizzati prevalentemente con la tecnica dell'opus tessellatum e dell'opus reticulatum. Nel triclinium è stato invece ritrovato un pannello di pasta di vetro dove su sfondo blu furono raffigurati 3 pesci: un delfino, un'orata e uno sgombro. I mosaici sono conservati nella sezione archeologica del Museo della città di Rimini.
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Domus del Chirurgo
Piazza Luigi Ferrari
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Domus del chirurgo abitazione romana antica di Rimini La domus del chirurgo è un'abitazione romana della seconda metà del II secolo, scoperta nel 1989 a Rimini in piazza Luigi Ferrari e aperta al pubblico ben diciotto anni dopo, il 7/12/2007. Vi è stata rinvenuta una delle serie più complete di strumenti chirurgici di età romana, oggi al Museo della città di Rimini. Descrizione Il nome con cui è nota, "casa del chirurgo", si deve al corredo chirurgico rinvenuto: da una mensola originariamente posta sulla parete era caduta una scatola di bronzo, da cui si era rovesciato un gruppo di strumenti in ferro e bronzo utilizzati dal medico per i suoi interventi, pinze, bisturi, scalpelli, sonde e altri attrezzi, nonché bilance e misurini di bronzo; e ancora vasetti in terracotta, e un gruppo di vetri ormai irriconoscibili, pertinenti a fiale e ad altri contenitori di uso farmaceutico. Le stanze della domus si affacciavano tutte su un lungo corridoio che serviva da disimpegno e raccordo tra i diversi vani, e che a sua volta dava su un cortile. All'interno una stanza serviva al medico per visitare e operare i pazienti, più una taberna medica, un ambulatorio che dava sul cortile. Tra i vani è stata identificata anche la sala da pranzo, il triclinio, e la camera da letto, il cubicolo. La cucina e la piccola dispensa erano invece al secondo piano. La ristrutturazione della domus risale agli ultimi anni del II secolo o ai primi decenni del III. Fu abbandonata e mai più occupata dopo un incendio che la distrusse completamente; in mezzo alle macerie del crollo del secondo piano furono trovate circa 80 monete romane, quasi tutte d'argento, la più recente databile tra il 253 e il 258; la distruzione si può far risalire a questi anni, o poco posteriori. Il chirurgo Si suppone che il nome del medico fosse Eutyches (Eutiche) grazie all'iscrizione sul muro della sua Taberna Medica "Eutyches Homo Bonus", e che fosse un medico militare di origine orientale. Dai ritrovamenti, dai mosaici, dalle decorazioni e dalle numerose scritte in greco ritrovate sul vasellame, si ipotizza che Eutyches fosse di origine greca e amante del bello. A confermare l'origine ellenica di Eutyches c'è anche il piede della statua di Ermarco, filosofo discepolo di Epicuro, ritrovata nel giardino. Scoperta Durante la rimozione di un albero con un escavatore si scoprì dei frammenti di un affresco intrappolati tra le radici della pianta. Successivamente il ritrovamento venne segnalato al Dipartimento di Storia Culture Civiltà di Bologna e si procedette agli scavi a 1,5 metri sotto terra. L'attuale struttura che contiene i resti della domus e che consente al pubblico di vederla camminando su piattaforme sospese fu aperta nel 2007. Associazioni ambientalistiche, contrarie all'abbattimento di alberi per gli scavi archeologici, consegnarono il "Premio Attila" all'amministrazione comunale. Reperti archeologici All'interno della domus sono stati ritrovati centinaia di reperti: ferri chirurgici, vasellame da cucina, monete, una lunga serie di decorazioni e mosaici. Gli strumenti chirurgici ritrovati a Rimini rappresentano a oggi la più ricca collezione chirurgica antica del mondo, per varietà e numero degli oggetti: circa 150 pezzi utilizzati per intervenire su ferite e traumi ossei, più una serie di vasetti utilizzati per la preparazione e la conservazione dei medicinali. Nel corredo chirurgico spiccano vari bisturi, sonde, pinzette, tenaglie odontoiatriche, leve ortopediche, un trapano a bracci mobili e diversi ferri utilizzati per esportare calcoli urinari. La tipologia dei ferri chirurgici indica che il chirurgo riminese era un medico militare. Uno dei ritrovamenti più importanti fu il Cucchiaio di Diocle, pezzo unico al mondo, che serviva per estrarre le punte di freccia conficcate nel corpo: un manico di ferro termina con una lamina a forma di cucchiaio, forata al centro, in modo da bloccare ed estrarre la freccia. Era utilizzato dai medici che operavano sul campo di battaglia. Mosaici e affreschi Gli scavi archeologici hanno riportato alla luce molti mosaici ancora intatti e affreschi policromi. Tra i mosaici spicca Orfeo tra gli animali, ritrovato nella taberna medica, che vede al centro Orfeo circondato da animali in ascolto. I mosaici furono realizzati prevalentemente con la tecnica dell'opus tessellatum e dell'opus reticulatum. Nel triclinium è stato invece ritrovato un pannello di pasta di vetro dove su sfondo blu furono raffigurati 3 pesci: un delfino, un'orata e uno sgombro. I mosaici sono conservati nella sezione archeologica del Museo della città di Rimini.
Domus dei Tappeti di Pietra Dove: via Barbiani | Ravenna È uno dei più importanti siti archeologici scoperti in Italia negli ultimi vent’anni. Si tratta di un complesso abitativo databile tra l’età romana e il periodo bizantino con pavimenti riccamente decorati in mosaico e in marmo. La Domus dei tappeti di pietra è un sito archeologico della città di Ravenna collocato in un ambiente ipogeo situato circa tre metri sotto la Chiesa di Sant'Eufemia. Storia Il sito fu ritrovato fortuitamente nel 1993 durante i lavori per la costruzione di alcune autorimesse sotterranee in via D'Azeglio 47. Venne alla luce un palazzo interamente decorato con meravigliosi mosaici e intarsi marmorei, databile al periodo bizantino. Le pavimentazioni musive sono decorate con elementi geometrici, vegetali e figurativi, per una superficie complessiva di 700 m². Descrizione Modifica I mosaici più famosi sono la Danza dei Geni delle Quattro Stagioni, rarissimo caso di geni danzanti in cerchio e il Buon Pastore. Danza dei Geni delle Quattro Stagioni Nella Danza dei Geni delle Quattro Stagioni appaiono quattro figure umane. A sinistra, il personaggio vestito di rosso con una corona di rose è la Primavera. In basso, la persona vestita di bianco è l'Autunno mentre il personaggio in alto che indossa un mantello verde è l'Inverno. Le stagioni stanno danzando e si tengono per mano. Autunno e Inverno danno la mano all'Estate, ma i mosaici che la raffiguravano non ci sono più. La quarta figura umana si trova in alto a destra ed è un musico che suona un flauto di canne. Buon Pastore Nel Buon Pastore, esso è ritratto in una versione differente da quelle tradizionali cristiane. È molto giovane ed ha i capelli corti. Indossa una tunica color azzurro con una stoffa arancione sotto il collo. Infine, indossa dei calzari ai piedi. Regge un bastone con il braccio sinistro. Alla sua destra e alla sua sinistra appaiono due cerbiatti. Dietro i cerbiatti vi sono due alberi alti come il Buon Pastore, con due uccelli sui rami. Rispetto alla Danza dei Geni delle Quattro Stagioni, questo mosaico è più rovinato. Del volto del Buon Pastore se ne vede solo metà. I mosaici che raffiguravano i bordi, gran parte dell'albero di sinistra e un po' del ramo di destra non ci sono più. Il monumento è stato inaugurato il 30 ottobre 2002 dall'allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, in occasione delle celebrazioni per i 1600 anni di Ravenna "Capitale dell'Impero Romano d'Occidente". Inoltre ha ottenuto anche il Premio Bell'Italia nel 2004.
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CHIESA DI SANTA EUFEMIA
Via Gian Battista Barbiani
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Domus dei Tappeti di Pietra Dove: via Barbiani | Ravenna È uno dei più importanti siti archeologici scoperti in Italia negli ultimi vent’anni. Si tratta di un complesso abitativo databile tra l’età romana e il periodo bizantino con pavimenti riccamente decorati in mosaico e in marmo. La Domus dei tappeti di pietra è un sito archeologico della città di Ravenna collocato in un ambiente ipogeo situato circa tre metri sotto la Chiesa di Sant'Eufemia. Storia Il sito fu ritrovato fortuitamente nel 1993 durante i lavori per la costruzione di alcune autorimesse sotterranee in via D'Azeglio 47. Venne alla luce un palazzo interamente decorato con meravigliosi mosaici e intarsi marmorei, databile al periodo bizantino. Le pavimentazioni musive sono decorate con elementi geometrici, vegetali e figurativi, per una superficie complessiva di 700 m². Descrizione Modifica I mosaici più famosi sono la Danza dei Geni delle Quattro Stagioni, rarissimo caso di geni danzanti in cerchio e il Buon Pastore. Danza dei Geni delle Quattro Stagioni Nella Danza dei Geni delle Quattro Stagioni appaiono quattro figure umane. A sinistra, il personaggio vestito di rosso con una corona di rose è la Primavera. In basso, la persona vestita di bianco è l'Autunno mentre il personaggio in alto che indossa un mantello verde è l'Inverno. Le stagioni stanno danzando e si tengono per mano. Autunno e Inverno danno la mano all'Estate, ma i mosaici che la raffiguravano non ci sono più. La quarta figura umana si trova in alto a destra ed è un musico che suona un flauto di canne. Buon Pastore Nel Buon Pastore, esso è ritratto in una versione differente da quelle tradizionali cristiane. È molto giovane ed ha i capelli corti. Indossa una tunica color azzurro con una stoffa arancione sotto il collo. Infine, indossa dei calzari ai piedi. Regge un bastone con il braccio sinistro. Alla sua destra e alla sua sinistra appaiono due cerbiatti. Dietro i cerbiatti vi sono due alberi alti come il Buon Pastore, con due uccelli sui rami. Rispetto alla Danza dei Geni delle Quattro Stagioni, questo mosaico è più rovinato. Del volto del Buon Pastore se ne vede solo metà. I mosaici che raffiguravano i bordi, gran parte dell'albero di sinistra e un po' del ramo di destra non ci sono più. Il monumento è stato inaugurato il 30 ottobre 2002 dall'allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, in occasione delle celebrazioni per i 1600 anni di Ravenna "Capitale dell'Impero Romano d'Occidente". Inoltre ha ottenuto anche il Premio Bell'Italia nel 2004.
La Domus del Triclinio è una domus romana del II-III sec. a.C., scoperta nel 1980, durante la costruzione della nuova sede della Banca Popolare di Ravenna. La casa è stata ricostruita nella sua integrità all'interno della Chiesa di San Nicolò, in un percorso espositivo formato da una sala da pranzo tricliniare (da cui il nome della "Domus"), completa di suppellettili, insieme ad altri materiali provenienti da musei archeologici italiani. Storia Gli scavi hanno consentito di portare alla luce parte di una domus romana ed i pavimenti musivi trovati hanno consentito di attribuire, in maniera certa, la funzione di sala tricliniare all'ambiente scoperto. Si è inoltre trovato un letto tricliniare in ottone, evento quanto mai raro, che ha ulteriormente avallato la destinazione della sala scoperta. Museo L'ambiente è stato ricostruito all'interno della chiesa di San Nicolò a Ravenna ricreando così un triclinio romano corredato di suppellettili e quant'altro facesse parte dell'arredo della sala.
181 preporuka/e lokalaca
Ravenna
181 preporuka/e lokalaca
La Domus del Triclinio è una domus romana del II-III sec. a.C., scoperta nel 1980, durante la costruzione della nuova sede della Banca Popolare di Ravenna. La casa è stata ricostruita nella sua integrità all'interno della Chiesa di San Nicolò, in un percorso espositivo formato da una sala da pranzo tricliniare (da cui il nome della "Domus"), completa di suppellettili, insieme ad altri materiali provenienti da musei archeologici italiani. Storia Gli scavi hanno consentito di portare alla luce parte di una domus romana ed i pavimenti musivi trovati hanno consentito di attribuire, in maniera certa, la funzione di sala tricliniare all'ambiente scoperto. Si è inoltre trovato un letto tricliniare in ottone, evento quanto mai raro, che ha ulteriormente avallato la destinazione della sala scoperta. Museo L'ambiente è stato ricostruito all'interno della chiesa di San Nicolò a Ravenna ricreando così un triclinio romano corredato di suppellettili e quant'altro facesse parte dell'arredo della sala.
Galeata Il 16 ottobre 2010 è stata inaugurata l’area termale della Villa di Teodorico a Galeata, nell'appennino forlivese. Il sito archeologico, scavato per la prima volta nel 1942 da un gruppo di studiosi dell'Istituto Archeologico Germanico di Roma, venne inizialmente interpretato come il palazzo di caccia del re Teoderico, in base al racconto della Vita di S. Ellero. Dopo un lungo periodo di inattività, durante il quale l'area era stata integralmente risepolta, nel 1998 sono ripresi gli scavi, a cura del Dipartimento di Archeologia dell'Università di Bologna, dietro concessione della Soprintendenza Archeologia dell'Emilia-Romagna. Le ricerche hanno individuato sia strutture romane sia teodoriciane, portando alla luce un elegante quartiere termale, con i canonici ambienti riscaldati artificialmente (calidarium e tepidarium) e gli ambienti freddi (frigidarium); collegato a questo settore coperto, un ampio cortile pavimentato in lastre di arenaria con al centro un grande vasca. Il quartiere termale era parte di una ricca residenza signorile databile tra la fine del V e l'inizio del VI sec. d.C. Grazie all'acquisto di un ampio settore dell'area archeologica da parte del Comune di Galeata e a un primo intervento di musealizzazione, il pubblico può finalmente visitare l’area termale della Villa di Teodorico, con le strutture archeologiche perfettamente restaurate, gli apparati didattici appositamente realizzati e le passerelle che offrono al visitatore, allo studioso e all’appassionato di archeologia una vista dall’alto privilegiata dello scavo. Per visitare l'area archeologica rivolgersi al Comune di Galeata, tel. 0543.975411 - Ufficio Cultura Il territorio di Galeata ha una storia antica. L’abitato medievale di Galeata era situato un po’ più a monte del paese attuale, a sinistra del fiume Bidente. E la storia altomedievale di Galeata è legata alla figura del re goto Teodorico e ai suoi rapporti con l’eremita S. Ellero, fondatore dell’omonima abbazia. L'Abbazia di S. Ellero fu fondata alla fine del V secolo da Ellero, che dopo nove anni di esistenza eremitica diede vita a Galeata a una comunità monastica, tra le prime in occidente, improntata sulla regola ascetica, la teologia del lavoro, la condivisione dei beni e la carità. In un passo della Vita Hilari, una fonte agiografia risalente all'VIII secolo che racconta la vita di Ellero, viene narrato l'incontro fra il Sant'uomo e il re goto Teodorico (o Teodericus, detto alla latina), a conclusione del quale, la dolcezza evangelica dello stesso Ellero avrà ragione della fierezza del re, che rimarrà affascinato dalla personalità del santo eremita e donerà terre all'Abbazia. Lo scenario dell'incontro tra Teodorico ed Ellero sembra essere raffigurato in due lastre, peraltro non coeve, collocate in origine in un'edicola posta a circa 200 metri dall'Abbazia, nel luogo che si presume sia stato lo scenario del memorabile incontro. La lastra che rappresenta Sant'Ellero con il libro della regola in mano dovrebbe datarsi fra l'VIII e il X secolo, mentre quella che raffigura Teodorico, nell'atto di essere sbalzato dal cavallo, non sembra essere stata realizzata prima del XIII secolo. Le due lastre sono attualmente esposte nel Museo civico "Mons. Domenico Mambrini" di Galeata. Ellero muore il 15 maggio 558 all'età di 82 anni. Il sarcofago che contiene le sue spoglie mortali, ornato da croci entro nicchie e databile fra l'VIII e I IX secolo, venne collocato nella cripta, che costituisce il nucleo più antico della chiesa. Qui si compiono riti legati alla magia delle pietre salutari allo scopo di curare i dolori alla testa e alla schiena. A causa delle vicissitudini dei tempi e delle periodiche scosse sismiche (la più devastante nel 1279) la chiesa è stata più volte riedificata. L'edificio attuale è il frutto di numerose ricostruzioni e restauri. La facciata, in blocchi di arenaria, di chiara impronta romanica e risalente all'XI-XII secolo, è dominata da un portale adornato da capitelli, animati da monaci, nell'atto di pregare, che si contrappongono a sirene, personificazione della lussuria. Nella parte sovrastante, campeggia un grande rosone. Lungo il lato meridionale della chiesa, tracce di arcate suggeriscono la probabile ubicazione del monastero che si sviluppava intorno al chiostro La Villa di Teodorico Le prime indagini archeologiche in località Saetta presso Galeata furono intraprese nell'autunno del 1942 dall'Istituto Archeologico Germanico di Roma, in collaborazione con l'allora Soprintendenza alle Antichità di Bologna (oggi Soprintendenza Archeologia dell'Emilia-Romagna). Gli scavi condotti da Friedrich Krischen e Siegfried Fuchs riportarono in luce i resti di quello che i due archeologi tedeschi definirono un "Palazzo di caccia" appartenuto al re goto Teodorico, il cui nome è legato al territorio galeatese grazie ad un celebre passo della Vita Hilari (una fonte agiografica medievale risalente all'VIII secolo), nel quale si narra dell'incontro del Santo Ellero con il re. Le ipotesi ricostruttive del "Palazzo" proposte da Krischen, tuttavia, erano del tutto ipotetiche (se non fantasiose) e basate su teorie errate, allorché si scelse di interpretare le strutture venute in luce come la testimonianza in Italia di un'architettura "gota" o germanica, del tutto inedita e basata su un presupposto antistorico, in netta contraddizione con quello che le fonti ci tramandano del re, quale continuatore ed erede della grande tradizione dell'architettura tardo-romana. Planimetria della Villa di Teodorico a GaleataGli scavi, condotti a partire dal 1998 dal Dipartimento di Archeologia dell'Università di Bologna, diretti dal Prof. Sandro De Maria e coordinati sul campo dal Prof. Riccardo Villicich, hanno portato ad una nuova chiave di lettura dell'intero sito archeologico. Si è potuto constatare come in realtà nell'insieme di ambienti portati in luce dagli archeologi tedeschi sia da riconoscersi solo un settore di una grande villa, la cui costruzione è si databile fra il tardo V e gli inizi del VI secolo d.C., ma i cui limiti sono decisamente più estesi di quelli precedentemente ipotizzati. La villa, che per cronologia e per ricchezza di soluzioni doveva essere effettivamente appartenuta a Teodorico, era infatti articolata in più settori e padiglioni, collegati fra loro tramite lunghi corridoi e ampie aree scoperte. Tale schema architettonico è stato confermato dal rinvenimento di una vasta corte quadrangolare, che fungeva da "cerniera" fra le terme della villa e il settore individuato nel 1942, al quale era collegato tramite un lungo corridoio. E' ormai quasi certo, purtroppo, che il padiglione di rappresentanza, quello più prestigioso della villa, sia andato perduto per sempre a seguito del suo crollo nell'alveo del torrente Saetta, contestualmente alla distruzione del sistema di terrazzamento artificiale che lo sosteneva. Non si esclude, tuttavia, che un piccolo lembo di questo settore sia ancora conservato sotto l'attuale strada del Pantano. La villa, o parte di essa, sembra essere stata abbandonata nel corso del VII secolo, come confermano gli scarichi ceramici e le ossa animali, residui di bivacchi occasionali, nel riempimento della vasca al centro della corte quadrangolare. I recenti scavi hanno confermato, inoltre, come il sito della villa di Teodorico sia un'area archeologica pluristratificata, frequentata almeno a partire dal VI secolo a.C. fino al IX d.C. e oltre. Lo dimostrano le evidenti tracce di un insediamento della tarda età del ferro (fra cui un lungo canale che ha restituito materiale ceramico e resti organici) e i numerosi resti romani, di età repubblicana e imperiale, pertinenti ad una o più ville preesistenti alla residenza teodericiana (con aree produttive annesse, come dimostra il rinvenimento di una piccola fornace per ceramica) Le Terme Ricostruzione 3D dell'impianto termale della Villa di Teodorico a Galeata - Riproduzione vietata, proprietà Università degli Studi di BolognaLe terme dovevano costituire uno dei padiglioni più prestigiosi della villa di Teodorico a Galeata; un vero e proprio settore di rappresentanza destinato all'ozio, al tempo libero e alla cura del corpo, percorrendo il quale traspariva in modo inequivocabile, per dimensioni, varietà di soluzioni architettoniche e ricchezza dei materiali, il rango di assoluto primo piano del committente. Per avere un'idea delle loro dimensioni, basti pensare che le terme della villa privata di Teodorico occupano un'area di gran lunga più grande di quella delle terme pubbliche della vicina città romana di Mevaniola. Il quartiere termale, decentrato rispetto al nucleo della villa e suddiviso in un settore estivo e in uno invernale, era raggiungibile grazie ad un lungo ambulacro, con probabile fronte porticata affacciata su un'area a giardino a nord delle terme. Dall'ambulacro si accedeva ad una grande corte quadrangolare scoperta, pavimentata in arenaria e circoscritta da quelli che dovevano essere alti muri di cinta. Al centro dello spazioso deambulatorio venne ricavata una vasca o piscina di forma rettangolare, anch'essa pavimentata con lastre di arenaria. La scarsa profondità dell'invaso rende improbabile la sua identificazione quale natatio, suggerendone una mera funzione ornamentale oppure un utilizzo per semplici e limitate abluzioni refrigeranti. Il settore estivo delle terme, gravitante intorno alla corte quadrangolare era completato da due ambienti di notevoli dimensioni, posti in modo speculare lungo il lato nord e sud del deambulatorio, e da un lungo edificio tripartito. Quest'ultimo consisteva in due vasche laterali e in un ambiente quadrato centrale, attraverso il quale si accedeva al comparto invernale, suddiviso a sua volta in una sequenza di ambienti riscaldati e non, disposti lungo un primo edificio longitudinale, terminante con un’ abside, e una seconda struttura a pianta centrale, che richiama evidentemente una croce greca. Dopo il loro abbandono le vasche delle terme vennero usate come discariche e in età medievale, quando il complesso divenne un rudere parzialmente sommerso dalla terra, l'area fu utilizzata per sporadiche sepolture. La fisionomia architettonica del "quartiere termale" della villa, del tutto originale e riconducibile a ben pochi confronti, sembrerebbe confermare come le terme private tardo romane costituiscano una gamma di esempi finiti molto differenti fra loro, se non per alcuni particolari comuni, quali la presenza di grandi padiglioni ottagoni e la progressiva diminuzione, soprattutto in ambito occidentale, degli ambienti riscaldati a vantaggio di quelli destinati ad abluzioni in acqua fredda. Questo fenomeno trova giustificazione nell'aumento esponenziale del prezzo della materia prima per il riscaldamento e nella difficoltà a reperirla Le Terme: il settore estivo Il settore estivo del quartiere termale gravitava intorno alla grande corte scoperta ed era connotato da una serie di strutture destinate prevalentemente ad abluzioni e bagni in acqua fredda o al ristoro di chi soggiornava nelle terme durante l'estate. Per quest'ultimo scopo, erano stati costruiti i due vani gemelli, lungo i lati nord e sud della corte, con la funzione di sale da pranzo o di ambienti di riposo, per rinfrescarsi, proteggersi dai raggi del sole e dalla calura dell'estate. Ad oriente del deambulatorio, a mo’ di diaframma fra il settore estivo e quello invernale, venne ricavato, inoltre, un lungo vano di forma rettangolare, caratterizzato da una sorta di vestibolo centrale o apodyterium di forma quadrata, attraverso il quale si poteva accedere a due vasche laterali, simmetriche, ubicate a nord e a sud di quest'ultimo. La vasca settentrionale era pavimentata in modo composito con lastre di arenaria, alternate a listelli e lastre di marmo irregolari. Sul pavimento della vasca, a causa della quota inferiore rispetto ai piani pavimentali, è stato possibile rinvenire parte del crollo della copertura voltata di quest'ultimo ambiente. La presenza di un grande numero di tubuli a siringa, alcuni dei quali ancora concatenati in serie di cinque o sei esemplari, fornisce un importante elemento di riferimento sulla tecnica costruttiva delle volte e sul materiale impiegato. Si ipotizza che l'edificio rettangolare presentasse due volte a botte laterali, che coprivano entrambe le vasche, e una volta a botte "lunettata" in corrispondenza del vestibolo centrale, secondo uno schema peraltro non raro, che consentiva di ricavare finestre lucifere nella volta al centro. La presenza di grandi vetrate nell'edificio è peraltro confermata dal rinvenimento di numerosi frammenti di vetri da finestra. Della pavimentazione della vasca meridionale, a causa dell'approfondimento delle arature, si è conservato solo un piccolo lacerto in arenaria nell'angolo nord-occidentale. Non vi sono motivi, comunque, per dubitare che il piano pavimentale fosse del tutto simile a quello della gemella settentrionale. L'acqua delle due vasche defluiva attraverso fistule plumbee, conservatesi in parte, in un sistema di canalizzazione a "T", che scorreva sotto il pavimento dell'apodyterium, per poi scaricare in un collettore centrale, localizzato sotto il pavimento in arenaria della corte quadrangolare, da cui l'acqua veniva convogliata verso sud, in direzione del torrente Saetta. Non è chiaro il motivo della duplicazione delle vasche nell'ambito dello stesso edificio. Se non si vuole ricondurre questa soluzione ad una semplice scelta estetica o a regole di simmetria, si può supporre che una delle due vasche fosse destinata agli uomini e l'altra alle donne. Immediatamente a nord di una delle due vasche, vi erano le latrine. Di queste ultime si conserva la canaletta di scarico. Dall'apodyterium, mediante una rampa di gradini si accedeva al frigidarium, dove prendeva avvio il percorso termale vero e proprio Le Terme: il settore invernale Lo scavo di alcune fosse di spogliazione (di età medievale e moderna) delle strutture murarie del settore termaleIl settore invernale delle terme era costituito da un allineamento assiale, nord-sud, formato da tre ambienti, interpretati come laconicum, tepidarium e frigidarium, ai quali si innesta, mediante un piccolo ambiente di raccordo, un grande calidarium ottagonale, attualmente ricoperto dalla terra per problemi di conservazione, con annesse tre vasche per bagni in acqua calda (alvei). Sono stati rinvenuti, inoltre, due dei quattro praefurnia destinati a produrre il calore necessario ai vani che dovevano essere riscaldati. Purtroppo, lo stato di conservazione delle strutture è drasticamente compromesso, a causa dei lavori agricoli e delle spogliazioni che hanno interessato i ruderi del palazzo a partire dall'età medievale e che hanno causato l'asportazione pressoché completa dei piani pavimentali. In alcuni ambienti si sono però conservati gli ipocausti, rendendo così possibile un'osservazione diretta del sistema di riscaldamento dei vani. I pavimenti di questi ambienti erano sostenuti da mattoni bipedali, rinvenuti negli strati di crollo, sorretti a loro volta da pilastrini, costituiti da mattoncini quadrati di buona fattura (detti bessali), che poggiavano sul piano dell'hypocaustum in cocciopesto. Il calore prodotto dalla combustione usciva dal praefurnium attraverso un'apertura rettangolare e giungeva all’ipocausto del primo ambiente riscaldato, il laconicum; da qui, in parte risaliva attraverso un sistema di tubuli nell'ambiente superiore, riscaldandone le pareti, ed in parte raggiungeva l'ipocausto del tepidarium limitrofo, attraverso opportune bocche aperte nelle strutture murarie di separazione. Tale sistema di riscaldamento era previsto, naturalmente, anche nel caso del calidarium. L'acqua destinata alle vasche (alvei) del calidarium ottagonale era riscaldata da apposite caldaie (ahenae) di forma cilindrica. L'ambiente di forma rettangolare, chiuso a meridione da un'abside, era sicuramente il frigidarium come è stato confermato dal rinvenimento di ciò che restava dei gradini dell'ampia scala destinata a colmare il dislivello fra il piano del tepidarium, sopraelevato con il sistema delle suspensurae, e quello dell'ambiente absidato, mettendoli in comunicazione. L'abside, con cui si chiudeva a sud il vano, doveva accogliere al suo interno una vasca semicircolare, destinata alle abluzioni in acqua fredda. Il rinvenimento di numerosi frammenti di lastre marmoree, in tutto il settore, dimostra che non solo il rivestimento delle vasche, ma anche i pavimenti e gli zoccoli di alcune pareti dovevano essere di marmo.
Villa di Teodorico
Via Pantano
Galeata Il 16 ottobre 2010 è stata inaugurata l’area termale della Villa di Teodorico a Galeata, nell'appennino forlivese. Il sito archeologico, scavato per la prima volta nel 1942 da un gruppo di studiosi dell'Istituto Archeologico Germanico di Roma, venne inizialmente interpretato come il palazzo di caccia del re Teoderico, in base al racconto della Vita di S. Ellero. Dopo un lungo periodo di inattività, durante il quale l'area era stata integralmente risepolta, nel 1998 sono ripresi gli scavi, a cura del Dipartimento di Archeologia dell'Università di Bologna, dietro concessione della Soprintendenza Archeologia dell'Emilia-Romagna. Le ricerche hanno individuato sia strutture romane sia teodoriciane, portando alla luce un elegante quartiere termale, con i canonici ambienti riscaldati artificialmente (calidarium e tepidarium) e gli ambienti freddi (frigidarium); collegato a questo settore coperto, un ampio cortile pavimentato in lastre di arenaria con al centro un grande vasca. Il quartiere termale era parte di una ricca residenza signorile databile tra la fine del V e l'inizio del VI sec. d.C. Grazie all'acquisto di un ampio settore dell'area archeologica da parte del Comune di Galeata e a un primo intervento di musealizzazione, il pubblico può finalmente visitare l’area termale della Villa di Teodorico, con le strutture archeologiche perfettamente restaurate, gli apparati didattici appositamente realizzati e le passerelle che offrono al visitatore, allo studioso e all’appassionato di archeologia una vista dall’alto privilegiata dello scavo. Per visitare l'area archeologica rivolgersi al Comune di Galeata, tel. 0543.975411 - Ufficio Cultura Il territorio di Galeata ha una storia antica. L’abitato medievale di Galeata era situato un po’ più a monte del paese attuale, a sinistra del fiume Bidente. E la storia altomedievale di Galeata è legata alla figura del re goto Teodorico e ai suoi rapporti con l’eremita S. Ellero, fondatore dell’omonima abbazia. L'Abbazia di S. Ellero fu fondata alla fine del V secolo da Ellero, che dopo nove anni di esistenza eremitica diede vita a Galeata a una comunità monastica, tra le prime in occidente, improntata sulla regola ascetica, la teologia del lavoro, la condivisione dei beni e la carità. In un passo della Vita Hilari, una fonte agiografia risalente all'VIII secolo che racconta la vita di Ellero, viene narrato l'incontro fra il Sant'uomo e il re goto Teodorico (o Teodericus, detto alla latina), a conclusione del quale, la dolcezza evangelica dello stesso Ellero avrà ragione della fierezza del re, che rimarrà affascinato dalla personalità del santo eremita e donerà terre all'Abbazia. Lo scenario dell'incontro tra Teodorico ed Ellero sembra essere raffigurato in due lastre, peraltro non coeve, collocate in origine in un'edicola posta a circa 200 metri dall'Abbazia, nel luogo che si presume sia stato lo scenario del memorabile incontro. La lastra che rappresenta Sant'Ellero con il libro della regola in mano dovrebbe datarsi fra l'VIII e il X secolo, mentre quella che raffigura Teodorico, nell'atto di essere sbalzato dal cavallo, non sembra essere stata realizzata prima del XIII secolo. Le due lastre sono attualmente esposte nel Museo civico "Mons. Domenico Mambrini" di Galeata. Ellero muore il 15 maggio 558 all'età di 82 anni. Il sarcofago che contiene le sue spoglie mortali, ornato da croci entro nicchie e databile fra l'VIII e I IX secolo, venne collocato nella cripta, che costituisce il nucleo più antico della chiesa. Qui si compiono riti legati alla magia delle pietre salutari allo scopo di curare i dolori alla testa e alla schiena. A causa delle vicissitudini dei tempi e delle periodiche scosse sismiche (la più devastante nel 1279) la chiesa è stata più volte riedificata. L'edificio attuale è il frutto di numerose ricostruzioni e restauri. La facciata, in blocchi di arenaria, di chiara impronta romanica e risalente all'XI-XII secolo, è dominata da un portale adornato da capitelli, animati da monaci, nell'atto di pregare, che si contrappongono a sirene, personificazione della lussuria. Nella parte sovrastante, campeggia un grande rosone. Lungo il lato meridionale della chiesa, tracce di arcate suggeriscono la probabile ubicazione del monastero che si sviluppava intorno al chiostro La Villa di Teodorico Le prime indagini archeologiche in località Saetta presso Galeata furono intraprese nell'autunno del 1942 dall'Istituto Archeologico Germanico di Roma, in collaborazione con l'allora Soprintendenza alle Antichità di Bologna (oggi Soprintendenza Archeologia dell'Emilia-Romagna). Gli scavi condotti da Friedrich Krischen e Siegfried Fuchs riportarono in luce i resti di quello che i due archeologi tedeschi definirono un "Palazzo di caccia" appartenuto al re goto Teodorico, il cui nome è legato al territorio galeatese grazie ad un celebre passo della Vita Hilari (una fonte agiografica medievale risalente all'VIII secolo), nel quale si narra dell'incontro del Santo Ellero con il re. Le ipotesi ricostruttive del "Palazzo" proposte da Krischen, tuttavia, erano del tutto ipotetiche (se non fantasiose) e basate su teorie errate, allorché si scelse di interpretare le strutture venute in luce come la testimonianza in Italia di un'architettura "gota" o germanica, del tutto inedita e basata su un presupposto antistorico, in netta contraddizione con quello che le fonti ci tramandano del re, quale continuatore ed erede della grande tradizione dell'architettura tardo-romana. Planimetria della Villa di Teodorico a GaleataGli scavi, condotti a partire dal 1998 dal Dipartimento di Archeologia dell'Università di Bologna, diretti dal Prof. Sandro De Maria e coordinati sul campo dal Prof. Riccardo Villicich, hanno portato ad una nuova chiave di lettura dell'intero sito archeologico. Si è potuto constatare come in realtà nell'insieme di ambienti portati in luce dagli archeologi tedeschi sia da riconoscersi solo un settore di una grande villa, la cui costruzione è si databile fra il tardo V e gli inizi del VI secolo d.C., ma i cui limiti sono decisamente più estesi di quelli precedentemente ipotizzati. La villa, che per cronologia e per ricchezza di soluzioni doveva essere effettivamente appartenuta a Teodorico, era infatti articolata in più settori e padiglioni, collegati fra loro tramite lunghi corridoi e ampie aree scoperte. Tale schema architettonico è stato confermato dal rinvenimento di una vasta corte quadrangolare, che fungeva da "cerniera" fra le terme della villa e il settore individuato nel 1942, al quale era collegato tramite un lungo corridoio. E' ormai quasi certo, purtroppo, che il padiglione di rappresentanza, quello più prestigioso della villa, sia andato perduto per sempre a seguito del suo crollo nell'alveo del torrente Saetta, contestualmente alla distruzione del sistema di terrazzamento artificiale che lo sosteneva. Non si esclude, tuttavia, che un piccolo lembo di questo settore sia ancora conservato sotto l'attuale strada del Pantano. La villa, o parte di essa, sembra essere stata abbandonata nel corso del VII secolo, come confermano gli scarichi ceramici e le ossa animali, residui di bivacchi occasionali, nel riempimento della vasca al centro della corte quadrangolare. I recenti scavi hanno confermato, inoltre, come il sito della villa di Teodorico sia un'area archeologica pluristratificata, frequentata almeno a partire dal VI secolo a.C. fino al IX d.C. e oltre. Lo dimostrano le evidenti tracce di un insediamento della tarda età del ferro (fra cui un lungo canale che ha restituito materiale ceramico e resti organici) e i numerosi resti romani, di età repubblicana e imperiale, pertinenti ad una o più ville preesistenti alla residenza teodericiana (con aree produttive annesse, come dimostra il rinvenimento di una piccola fornace per ceramica) Le Terme Ricostruzione 3D dell'impianto termale della Villa di Teodorico a Galeata - Riproduzione vietata, proprietà Università degli Studi di BolognaLe terme dovevano costituire uno dei padiglioni più prestigiosi della villa di Teodorico a Galeata; un vero e proprio settore di rappresentanza destinato all'ozio, al tempo libero e alla cura del corpo, percorrendo il quale traspariva in modo inequivocabile, per dimensioni, varietà di soluzioni architettoniche e ricchezza dei materiali, il rango di assoluto primo piano del committente. Per avere un'idea delle loro dimensioni, basti pensare che le terme della villa privata di Teodorico occupano un'area di gran lunga più grande di quella delle terme pubbliche della vicina città romana di Mevaniola. Il quartiere termale, decentrato rispetto al nucleo della villa e suddiviso in un settore estivo e in uno invernale, era raggiungibile grazie ad un lungo ambulacro, con probabile fronte porticata affacciata su un'area a giardino a nord delle terme. Dall'ambulacro si accedeva ad una grande corte quadrangolare scoperta, pavimentata in arenaria e circoscritta da quelli che dovevano essere alti muri di cinta. Al centro dello spazioso deambulatorio venne ricavata una vasca o piscina di forma rettangolare, anch'essa pavimentata con lastre di arenaria. La scarsa profondità dell'invaso rende improbabile la sua identificazione quale natatio, suggerendone una mera funzione ornamentale oppure un utilizzo per semplici e limitate abluzioni refrigeranti. Il settore estivo delle terme, gravitante intorno alla corte quadrangolare era completato da due ambienti di notevoli dimensioni, posti in modo speculare lungo il lato nord e sud del deambulatorio, e da un lungo edificio tripartito. Quest'ultimo consisteva in due vasche laterali e in un ambiente quadrato centrale, attraverso il quale si accedeva al comparto invernale, suddiviso a sua volta in una sequenza di ambienti riscaldati e non, disposti lungo un primo edificio longitudinale, terminante con un’ abside, e una seconda struttura a pianta centrale, che richiama evidentemente una croce greca. Dopo il loro abbandono le vasche delle terme vennero usate come discariche e in età medievale, quando il complesso divenne un rudere parzialmente sommerso dalla terra, l'area fu utilizzata per sporadiche sepolture. La fisionomia architettonica del "quartiere termale" della villa, del tutto originale e riconducibile a ben pochi confronti, sembrerebbe confermare come le terme private tardo romane costituiscano una gamma di esempi finiti molto differenti fra loro, se non per alcuni particolari comuni, quali la presenza di grandi padiglioni ottagoni e la progressiva diminuzione, soprattutto in ambito occidentale, degli ambienti riscaldati a vantaggio di quelli destinati ad abluzioni in acqua fredda. Questo fenomeno trova giustificazione nell'aumento esponenziale del prezzo della materia prima per il riscaldamento e nella difficoltà a reperirla Le Terme: il settore estivo Il settore estivo del quartiere termale gravitava intorno alla grande corte scoperta ed era connotato da una serie di strutture destinate prevalentemente ad abluzioni e bagni in acqua fredda o al ristoro di chi soggiornava nelle terme durante l'estate. Per quest'ultimo scopo, erano stati costruiti i due vani gemelli, lungo i lati nord e sud della corte, con la funzione di sale da pranzo o di ambienti di riposo, per rinfrescarsi, proteggersi dai raggi del sole e dalla calura dell'estate. Ad oriente del deambulatorio, a mo’ di diaframma fra il settore estivo e quello invernale, venne ricavato, inoltre, un lungo vano di forma rettangolare, caratterizzato da una sorta di vestibolo centrale o apodyterium di forma quadrata, attraverso il quale si poteva accedere a due vasche laterali, simmetriche, ubicate a nord e a sud di quest'ultimo. La vasca settentrionale era pavimentata in modo composito con lastre di arenaria, alternate a listelli e lastre di marmo irregolari. Sul pavimento della vasca, a causa della quota inferiore rispetto ai piani pavimentali, è stato possibile rinvenire parte del crollo della copertura voltata di quest'ultimo ambiente. La presenza di un grande numero di tubuli a siringa, alcuni dei quali ancora concatenati in serie di cinque o sei esemplari, fornisce un importante elemento di riferimento sulla tecnica costruttiva delle volte e sul materiale impiegato. Si ipotizza che l'edificio rettangolare presentasse due volte a botte laterali, che coprivano entrambe le vasche, e una volta a botte "lunettata" in corrispondenza del vestibolo centrale, secondo uno schema peraltro non raro, che consentiva di ricavare finestre lucifere nella volta al centro. La presenza di grandi vetrate nell'edificio è peraltro confermata dal rinvenimento di numerosi frammenti di vetri da finestra. Della pavimentazione della vasca meridionale, a causa dell'approfondimento delle arature, si è conservato solo un piccolo lacerto in arenaria nell'angolo nord-occidentale. Non vi sono motivi, comunque, per dubitare che il piano pavimentale fosse del tutto simile a quello della gemella settentrionale. L'acqua delle due vasche defluiva attraverso fistule plumbee, conservatesi in parte, in un sistema di canalizzazione a "T", che scorreva sotto il pavimento dell'apodyterium, per poi scaricare in un collettore centrale, localizzato sotto il pavimento in arenaria della corte quadrangolare, da cui l'acqua veniva convogliata verso sud, in direzione del torrente Saetta. Non è chiaro il motivo della duplicazione delle vasche nell'ambito dello stesso edificio. Se non si vuole ricondurre questa soluzione ad una semplice scelta estetica o a regole di simmetria, si può supporre che una delle due vasche fosse destinata agli uomini e l'altra alle donne. Immediatamente a nord di una delle due vasche, vi erano le latrine. Di queste ultime si conserva la canaletta di scarico. Dall'apodyterium, mediante una rampa di gradini si accedeva al frigidarium, dove prendeva avvio il percorso termale vero e proprio Le Terme: il settore invernale Lo scavo di alcune fosse di spogliazione (di età medievale e moderna) delle strutture murarie del settore termaleIl settore invernale delle terme era costituito da un allineamento assiale, nord-sud, formato da tre ambienti, interpretati come laconicum, tepidarium e frigidarium, ai quali si innesta, mediante un piccolo ambiente di raccordo, un grande calidarium ottagonale, attualmente ricoperto dalla terra per problemi di conservazione, con annesse tre vasche per bagni in acqua calda (alvei). Sono stati rinvenuti, inoltre, due dei quattro praefurnia destinati a produrre il calore necessario ai vani che dovevano essere riscaldati. Purtroppo, lo stato di conservazione delle strutture è drasticamente compromesso, a causa dei lavori agricoli e delle spogliazioni che hanno interessato i ruderi del palazzo a partire dall'età medievale e che hanno causato l'asportazione pressoché completa dei piani pavimentali. In alcuni ambienti si sono però conservati gli ipocausti, rendendo così possibile un'osservazione diretta del sistema di riscaldamento dei vani. I pavimenti di questi ambienti erano sostenuti da mattoni bipedali, rinvenuti negli strati di crollo, sorretti a loro volta da pilastrini, costituiti da mattoncini quadrati di buona fattura (detti bessali), che poggiavano sul piano dell'hypocaustum in cocciopesto. Il calore prodotto dalla combustione usciva dal praefurnium attraverso un'apertura rettangolare e giungeva all’ipocausto del primo ambiente riscaldato, il laconicum; da qui, in parte risaliva attraverso un sistema di tubuli nell'ambiente superiore, riscaldandone le pareti, ed in parte raggiungeva l'ipocausto del tepidarium limitrofo, attraverso opportune bocche aperte nelle strutture murarie di separazione. Tale sistema di riscaldamento era previsto, naturalmente, anche nel caso del calidarium. L'acqua destinata alle vasche (alvei) del calidarium ottagonale era riscaldata da apposite caldaie (ahenae) di forma cilindrica. L'ambiente di forma rettangolare, chiuso a meridione da un'abside, era sicuramente il frigidarium come è stato confermato dal rinvenimento di ciò che restava dei gradini dell'ampia scala destinata a colmare il dislivello fra il piano del tepidarium, sopraelevato con il sistema delle suspensurae, e quello dell'ambiente absidato, mettendoli in comunicazione. L'abside, con cui si chiudeva a sud il vano, doveva accogliere al suo interno una vasca semicircolare, destinata alle abluzioni in acqua fredda. Il rinvenimento di numerosi frammenti di lastre marmoree, in tutto il settore, dimostra che non solo il rivestimento delle vasche, ma anche i pavimenti e gli zoccoli di alcune pareti dovevano essere di marmo.
La Domus di Casa Vitali Forlimpopoli Nell’agosto 1969, a sud della circonvallazione Emilia, in occasione di lavori per la costruzione di locali interrati in proprietà Vitali, vengono riportati alla luce resti di strutture pertinenti a un edificio residenziale di epoca romana. La domus doveva insistere su di un’area frequentata già in epoca pre-romana come attesta il rinvenimento di una fibula ‘a navicella’ databile alla metà del VI secolo a. C.. Il settore interessato dallo scavo ha restituito una serie di ambienti sistemati intorno a un cortile. Del complesso si sono individuate almeno due fasi edilizie. Lo strato più antico, databile al I secolo d. C., è caratterizzato dalla presenza di murature in laterizio di buona qualità, messe in opera con cura. A questa fase appartiene un mosaico pavimentale di grandi dimensioni (m 7,5×8) a tessere bianco/nere con emblema centrale (andato perduto), delimitato da una fascia che riproduce il motivo a ‘mura, torri e porte urbiche’. La seconda fase edilizia, databile al II secolo d. C., è connotata dalla presenza di materiale da costruzione di reimpiego; a questa fase afferisce un mosaico pavimentale a tessere bianco/nere, di ampie dimensioni (m 6,80×2) e in ottimo stato di conservazione: esso presenta una decorazione geometrica con motivi di stelle a otto punte, pelte e scudi incrociati. domus-casa-vitali domus-casa-vitali-2 Dallo sterro sono stati recuperati materiali estremamente variegati, per tipologia e cronologia: frammenti di intonaco dipinto, un capitello corinzio, una moneta di Commodo, frammenti di ceramica a vernice nera e rossa, terra sigillata, alcune lucerne di cui una paleocristiana con raffigurazione di leone sul disco. I materiali confermerebbero una continuità abitativa fra il I e il II secolo d. C. epoca in cui, presumibilmente, la domus viene abbandonata e spogliata. In seguito l’area è stata verosimilmente utilizzata come luogo di sepoltura dato il rinvenimento, nel lato meridionale dello scavo, di una tomba “alla cappuccina”. Contestualmente al rinvenimento del grande mosaico con fascia che riproduce il motivo a ‘mura, torri e porte urbiche’, nell’area cortilizia della domus, pavimentata in opus spicatum, viene individuato un pozzo molto profondo (diametro mt 1, altezza mt 7,50 dal piano di calpestio di epoca romana) interamente “rivestito di grossi mattoni sagomati, ben incastrati fra loro”. Dallo svuotamento del pozzo sono stati recuperati, oltre a numerosi frammenti di laterizi (che, mescolati a fanghiglia, ne ostruivano la parte superiore per uno spessore di oltre 4 metri), sei brocche in terracotta, dodici fusaiole, un secchiello cilindrico in legno rivestito da listelli di cuoio intrecciato (fiscellus), un secondo contenitore cilindrico – di dimensioni minori – anch’esso in legno rivestito da listelli di cuoio intrecciato, una piccola ‘sporta’ realizzata in soli listelli di cuoio intrecciato (corbula), frammenti di anfore, alcuni noccioli di pesca e un gancio di legno utilizzato, verosimilmente, per calare i recipienti nel pozzo.
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Forlimpopoli
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La Domus di Casa Vitali Forlimpopoli Nell’agosto 1969, a sud della circonvallazione Emilia, in occasione di lavori per la costruzione di locali interrati in proprietà Vitali, vengono riportati alla luce resti di strutture pertinenti a un edificio residenziale di epoca romana. La domus doveva insistere su di un’area frequentata già in epoca pre-romana come attesta il rinvenimento di una fibula ‘a navicella’ databile alla metà del VI secolo a. C.. Il settore interessato dallo scavo ha restituito una serie di ambienti sistemati intorno a un cortile. Del complesso si sono individuate almeno due fasi edilizie. Lo strato più antico, databile al I secolo d. C., è caratterizzato dalla presenza di murature in laterizio di buona qualità, messe in opera con cura. A questa fase appartiene un mosaico pavimentale di grandi dimensioni (m 7,5×8) a tessere bianco/nere con emblema centrale (andato perduto), delimitato da una fascia che riproduce il motivo a ‘mura, torri e porte urbiche’. La seconda fase edilizia, databile al II secolo d. C., è connotata dalla presenza di materiale da costruzione di reimpiego; a questa fase afferisce un mosaico pavimentale a tessere bianco/nere, di ampie dimensioni (m 6,80×2) e in ottimo stato di conservazione: esso presenta una decorazione geometrica con motivi di stelle a otto punte, pelte e scudi incrociati. domus-casa-vitali domus-casa-vitali-2 Dallo sterro sono stati recuperati materiali estremamente variegati, per tipologia e cronologia: frammenti di intonaco dipinto, un capitello corinzio, una moneta di Commodo, frammenti di ceramica a vernice nera e rossa, terra sigillata, alcune lucerne di cui una paleocristiana con raffigurazione di leone sul disco. I materiali confermerebbero una continuità abitativa fra il I e il II secolo d. C. epoca in cui, presumibilmente, la domus viene abbandonata e spogliata. In seguito l’area è stata verosimilmente utilizzata come luogo di sepoltura dato il rinvenimento, nel lato meridionale dello scavo, di una tomba “alla cappuccina”. Contestualmente al rinvenimento del grande mosaico con fascia che riproduce il motivo a ‘mura, torri e porte urbiche’, nell’area cortilizia della domus, pavimentata in opus spicatum, viene individuato un pozzo molto profondo (diametro mt 1, altezza mt 7,50 dal piano di calpestio di epoca romana) interamente “rivestito di grossi mattoni sagomati, ben incastrati fra loro”. Dallo svuotamento del pozzo sono stati recuperati, oltre a numerosi frammenti di laterizi (che, mescolati a fanghiglia, ne ostruivano la parte superiore per uno spessore di oltre 4 metri), sei brocche in terracotta, dodici fusaiole, un secchiello cilindrico in legno rivestito da listelli di cuoio intrecciato (fiscellus), un secondo contenitore cilindrico – di dimensioni minori – anch’esso in legno rivestito da listelli di cuoio intrecciato, una piccola ‘sporta’ realizzata in soli listelli di cuoio intrecciato (corbula), frammenti di anfore, alcuni noccioli di pesca e un gancio di legno utilizzato, verosimilmente, per calare i recipienti nel pozzo.

Acquedotto Romano

Era alimentato dalle acque captate sulle colline di Meldola e attraversava il territorio forlivese col compito di risolvere i grandi problemi idrici dell’assetata Ravenna, l’antica e affollata città portuale da sempre afflitta dall’assenza di acqua sana. Sidonio Apollinare, alto funzionario di Roma, nel V secolo scr isse in merito una frase tanto arguta quanto eloquente: (a Ravenna) i vivi patiscono la sete e i sepolti nuotano nell’acqua. E così Marziale: Di recente un astuto oste me l’ha fatta a Ravenna: io gli avevo chiesto vino annaffiato, me lo ha dato schietto. Costruito da Traiano (53 – 117), ripristinato da Teodorico (454 – 526) e in seguito ristrutturato dall’esarca Smaragdo (VI), il grande condotto fu realizzato su pilastri in mattoni e con archi a tutto sesto secondo il disegno classico. Nella zona a monte l’incanalamento avveniva tramite cunicoli di cui si hanno interessanti testimonianze. Il suo probabile tracciato toccava Meldola, Farazzano, Ronco, Pieve Acquedotto, Durazzano, per poi entrare in territorio ravennate presso Coccolia. Alla fine dell’800 erano visibili alcuni dubbi ruderi nel letto in magra del fiume Ronco presso Bagnolo, e altri a Coccolia. A Longana (RA) l’affioramento dei piloni nell’alveo del fiume Ronco è documentato fotograficamente. L’importanza del grande manufatto è chiaramente sottolineata da Teodorico che, tramite una lettera destinata ai proprietari dei terreni su cui correva il tracciato, ribadiva la necessità di tenere pulito l’acquedotto che conduceva acqua buona a Ravenna. Nella comunicazione ufficiale ordinava di sradicare ogni pianta che potesse crescere attorno, o sulle colonne, dell’opera pubblica per evitare che l’acqua potesse sporcarsi. Nell’area di Forlì le tracce più importanti di quell’antico condotto sono toponimi. Pieve Acquedotto, naturalmente, ma anche quel Flumen Aquaeductus che troviamo citato in documenti e atti medievali. Il Flumen Aquaeductus è il fiume Ronco che, per volere dell’uomo – forse anche “aiutato” dall’impeto della natura – a valle della via Emilia assunse, confluendovi, il tracciato artificiale e rettilineo dell’antico acquedotto. Il fatto che dalla fine del XII secolo non si menzioni più l’acquedotto se non come titolo di pieve o denominazione del Bidente / Ronco – scrive Luciana Prati sul volume Flumen Acquaeductus – parrebbe connettersi all’ipotesi di Antonio Veggiani, che l’incanalamento del Ronco sul tracciato dell’acquedotto ormai in rovina sia avvenuto nel periodo di dissesto geologico di questo e del secolo seguente (1150 – 1250 / 1200 – 1300). La disgrazia dell’acquedotto significò una piccola fortuna per i forlivesi che sicuramente utilizzarono, come di prassi nelle opere pubbliche in rovina, i materiali di risulta per le proprie necessità costruttive. La presenza dell’acquedotto di Traiano e Teodorico nell’area forlivese è oggi ricordata da una via: la via Antico Acquedotto, proprio nel quartiere Pieve Acquedotto. Per saperne di più: – Antonio Veggiani. Considerazioni geologiche sulla captazione e sul tracciato dell’acquedotto romano di Ravenna. In Studi romagnoli XXXI. La Fotocromo emiliana. Bologna. 1980. – Luciana Prati (a cura di). Flumen Acquaeductus. Catalogo della mostra tenuta a Forlì nel 1988. Comune di Forlì, Soprintendenza Archeologica dell’Emilia Romagna; Istituto per i beni culturali della Regione Emilia Romagna; Consorzio Acque per le Province di Forlì e Ravenna. Nuova Alfa Editoriale. 1988.
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Meldola
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Era alimentato dalle acque captate sulle colline di Meldola e attraversava il territorio forlivese col compito di risolvere i grandi problemi idrici dell’assetata Ravenna, l’antica e affollata città portuale da sempre afflitta dall’assenza di acqua sana. Sidonio Apollinare, alto funzionario di Roma, nel V secolo scr isse in merito una frase tanto arguta quanto eloquente: (a Ravenna) i vivi patiscono la sete e i sepolti nuotano nell’acqua. E così Marziale: Di recente un astuto oste me l’ha fatta a Ravenna: io gli avevo chiesto vino annaffiato, me lo ha dato schietto. Costruito da Traiano (53 – 117), ripristinato da Teodorico (454 – 526) e in seguito ristrutturato dall’esarca Smaragdo (VI), il grande condotto fu realizzato su pilastri in mattoni e con archi a tutto sesto secondo il disegno classico. Nella zona a monte l’incanalamento avveniva tramite cunicoli di cui si hanno interessanti testimonianze. Il suo probabile tracciato toccava Meldola, Farazzano, Ronco, Pieve Acquedotto, Durazzano, per poi entrare in territorio ravennate presso Coccolia. Alla fine dell’800 erano visibili alcuni dubbi ruderi nel letto in magra del fiume Ronco presso Bagnolo, e altri a Coccolia. A Longana (RA) l’affioramento dei piloni nell’alveo del fiume Ronco è documentato fotograficamente. L’importanza del grande manufatto è chiaramente sottolineata da Teodorico che, tramite una lettera destinata ai proprietari dei terreni su cui correva il tracciato, ribadiva la necessità di tenere pulito l’acquedotto che conduceva acqua buona a Ravenna. Nella comunicazione ufficiale ordinava di sradicare ogni pianta che potesse crescere attorno, o sulle colonne, dell’opera pubblica per evitare che l’acqua potesse sporcarsi. Nell’area di Forlì le tracce più importanti di quell’antico condotto sono toponimi. Pieve Acquedotto, naturalmente, ma anche quel Flumen Aquaeductus che troviamo citato in documenti e atti medievali. Il Flumen Aquaeductus è il fiume Ronco che, per volere dell’uomo – forse anche “aiutato” dall’impeto della natura – a valle della via Emilia assunse, confluendovi, il tracciato artificiale e rettilineo dell’antico acquedotto. Il fatto che dalla fine del XII secolo non si menzioni più l’acquedotto se non come titolo di pieve o denominazione del Bidente / Ronco – scrive Luciana Prati sul volume Flumen Acquaeductus – parrebbe connettersi all’ipotesi di Antonio Veggiani, che l’incanalamento del Ronco sul tracciato dell’acquedotto ormai in rovina sia avvenuto nel periodo di dissesto geologico di questo e del secolo seguente (1150 – 1250 / 1200 – 1300). La disgrazia dell’acquedotto significò una piccola fortuna per i forlivesi che sicuramente utilizzarono, come di prassi nelle opere pubbliche in rovina, i materiali di risulta per le proprie necessità costruttive. La presenza dell’acquedotto di Traiano e Teodorico nell’area forlivese è oggi ricordata da una via: la via Antico Acquedotto, proprio nel quartiere Pieve Acquedotto. Per saperne di più: – Antonio Veggiani. Considerazioni geologiche sulla captazione e sul tracciato dell’acquedotto romano di Ravenna. In Studi romagnoli XXXI. La Fotocromo emiliana. Bologna. 1980. – Luciana Prati (a cura di). Flumen Acquaeductus. Catalogo della mostra tenuta a Forlì nel 1988. Comune di Forlì, Soprintendenza Archeologica dell’Emilia Romagna; Istituto per i beni culturali della Regione Emilia Romagna; Consorzio Acque per le Province di Forlì e Ravenna. Nuova Alfa Editoriale. 1988.

Civitas Classis

Civitas Classis fu il centro portuale dell'antica città romana di Ravenna. Coincide con l'attuale insediamento di Classe, frazione della città romagnola. Storia Il sito dove fu fondata Civitas Classis si trovava all'interno di una delle lagune interne che circondavano Ravenna. Attorno al 27 a.C. l'imperatore Augusto vi fece costruire un porto militare, destinato ad ospitare la flotta che aveva il compito di sorvegliare la parte orientale del mare Mediterraneo. Le lagune intorno a Ravenna non comunicavano direttamente col mare. In epoca antica, infatti, un lungo cordone di dune sabbiose divideva le lagune interne e Ravenna dal mare. I romani costruirono allora un canale artificiale per mettere in comunicazione il porto con il mare Adriatico. Un secondo canale, la Fossa Augusta (dal nome dell'imperatore Augusto), congiunse Classe con Ravenna. Prolungata verso nord, la Fossa Augusta collegò Ravenna alla laguna veneta e al sistema portuale di Aquileia. Divenne così possibile navigare da Classe ad Aquileia (circa 250 km) in acque calme e a regime costante. Classe era collegata a Ravenna anche da una strada, la Via Caesaris. Costruita nel I sec. a.C., iniziava a Ravenna da Porta Cesarea e, seguendo un tratto rettilineo, attraversava Cesarea, Classe e terminava il suo corso nella via Popilia. Il porto di Classe Il porto di Classe poteva contenere fino a 250 navi da guerra alla fonda. Lungo il canale artificiale e attorno ai bacini si potevano vedere arsenali e depositi a perdita d'occhio; lo sviluppo delle banchine d'attracco raggiungeva i 3 km.. Il numero di soldati che vivevano a Classe era elevato: si aggirava intorno ai 10.000, tra legionari e ausiliari. Una azienda agricola aveva la funzione di produrre generi alimentari per il loro sostentamento. Da questo porto sembra iniziò la seconda campagna contro i Daci da parte di Traiano, come rappresentato sulla omonima Colonna, contrariamente a quanti sostengono che il porto sia da identificarsi con Brindisi o Ancona. Il sobborgo di Classe si sviluppò attorno a caserme, magazzini e all'accampamento dei classiari (i soldati della marina). A partire dal II sec. si sviluppò, dal nucleo originario, la cittadina. Nel III-IV sec. fu costruita attorno all'abitato una cinta muraria a forma di semicerchio. A causa della subsidenza che affligge l'area ravennate, però, il territorio, abbassandosi, divenne progressivamente paludoso. All'inizio del IV sec., tale fenomeno era così evidente che le banchine, i cantieri e le strade di accesso al porto erano diventate inservibili. Nel 330 l'imperatore Costantino I decise di trasferire la base della flotta nella nuova capitale dell'impero, Costantinopoli. Il porto fu riattivato verso il V sec.. Ciò determinò una rinnovata crescita dell'abitato di Classe, che si protrasse anche nel secolo successivo, quando assurse al rango di città. Al tempo del re goto Teoderico (493-526), infatti, la Basilica Petriana di Classe, che trae il nome dal vescovo fondatore San Pietro Crisologo (432-450), fu dotata di battistero. Altro importante monumento religioso edificato in questo periodo fu la Basilica di San Severo (con annesso complesso monastico), oggi scomparsa. Epoca bizantina Nella prima metà del VI sec., durante l'episcopato di Sant'Ursicino, fu costruita a Classe una basilica, dedicata a Sant'Apollinare, proto-vescovo di Ravenna. Prese il nome di Basilica di Sant'Apollinare in Classe ed esiste tuttora. La cinta muraria di Classe fu distrutta fino alle fondamenta dal duca longobardo Faroaldo I, che saccheggiò la città nel 580-581. Fu liberata nel 585 dal duca Drottulfo, un longobardo passato ai bizantini. Classe fu conquistata una seconda volta dai Longobardi: il duca di Spoleto, Faroaldo II, approfittò della guerra in corso tra l'Impero d'Oriente e gli Arabi per attaccare la città. Solo dopo le proteste dell'esarca, Scolastico, Faroaldo restituì la città ai bizantini (nel 712 o 713). Classe fu presa dai Longobardi per la terza volta nel 717: re Liutprando saccheggiò la città e cinse d'assedio Ravenna. Nell'870 i pirati saraceni sbarcarono sul litorale saccheggiando la basilica di Sant'Apollinare in Classe. Gli abitanti abbandonarono Civitas Classis e si rifugiarono dentro le mura di Ravenna. Monumenti Basilica Petriana La Basilica Petriana fu la prima chiesa cristiana di Classe. Iniziata da San Pietro Crisologo, nella prima metà del V sec., fu terminata dal successore Neone. Grande edificio a tre navate, la basilica era preceduta da un quadriportico. Nel 725 crollò a causa di un terremoto. Basilica di San Severo Fu costruita nel VI sec. nei pressi della Via Caesaris, la strada maestra che collegava Classe a Ravenna, in un'area dove sorgeva l'abitazione del vescovo Severo, cui fu dedicata. Basilica bizantina a tre navate, fu iniziata dall'arcivescovo Pietro IV (570-575) e terminata dal successore Giovanni IV (576-593) che ordinò la traslazione delle spoglie mortali del santo. La chiesa sopravvisse al terremoto del 725, ma la salma di san Severo fu trasportata in Germania, a Magonza, dove da allora riposa nel Duomo di Erfurt. Nel 1468 la basilica fu demolita perché in rovina e sul luogo ne fu costruita una nuova, più piccola, la quale, restaurata e rinnovata nel XVIII sec. poi abbandonata, risultava definitivamente distrutta attorno al 1820. Esplorazione archeologica L'area intorno a Classe è stata oggetto di diverse indagini archeologiche a partire dal XX sec.. Viste le dimensioni della flotta militare romana, era lecito pensare di poter ritrovare la struttura portuale, pur sommersa da metri e metri di argilla accumulatasi nel corso dei secoli. Un aiuto decisivo alle ricerche è stato fornito dalle fotografie aeree. Poche centinaia di metri a sud dell'attuale alveo dei Fiumi Uniti è stata localizzata la bocca del porto a forcipe. Negli anni successivi furono rinvenute nella stessa zona grosse strutture murarie relative all'imbocco del porto. Si è ritenuto che fossero i resti delle protezioni contro le correnti marine. Nel podere Chiavichetta (a lato di via Romea vecchia) sono emerse le banchine ed è stata rinvenuta traccia di un isolotto, dentro il canale, collegato alla terraferma da un ponte mobile. La strada selciata di collegamento da Ravenna a Civitas Classis (via Caesaris) è stata rinvenuta sotto viale Galileo Galilei, al fondo di quattro piani stradali, dove il livello più antico è stato datato al I sec. d.C. Altre tracce di via Caesaris sono emerse a nord del Ponte Nuovo. Le ricerche effettuate nel Podere Chiavichetta hanno portato alla scoperta delle fondamenta di magazzini per lo stoccaggio delle merci (il quartiere commerciale ed artigianale). Nei primi anni settanta, durante gli scavi è emersa la Tyche (rappresentazione della fortuna e dell'anima) di Ravenna: una testa turrita in marmo, inserita presumibilmente in un rilievo di un edificio (pubblico o di culto) che raffigura la dea protettrice della città. Il 28/7/2015 è stato inaugurato il Parco archeologico dell'antico porto di Classe completamente ristrutturato.
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Old Port of Classe - Parco Archeologico di Classe
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Civitas Classis fu il centro portuale dell'antica città romana di Ravenna. Coincide con l'attuale insediamento di Classe, frazione della città romagnola. Storia Il sito dove fu fondata Civitas Classis si trovava all'interno di una delle lagune interne che circondavano Ravenna. Attorno al 27 a.C. l'imperatore Augusto vi fece costruire un porto militare, destinato ad ospitare la flotta che aveva il compito di sorvegliare la parte orientale del mare Mediterraneo. Le lagune intorno a Ravenna non comunicavano direttamente col mare. In epoca antica, infatti, un lungo cordone di dune sabbiose divideva le lagune interne e Ravenna dal mare. I romani costruirono allora un canale artificiale per mettere in comunicazione il porto con il mare Adriatico. Un secondo canale, la Fossa Augusta (dal nome dell'imperatore Augusto), congiunse Classe con Ravenna. Prolungata verso nord, la Fossa Augusta collegò Ravenna alla laguna veneta e al sistema portuale di Aquileia. Divenne così possibile navigare da Classe ad Aquileia (circa 250 km) in acque calme e a regime costante. Classe era collegata a Ravenna anche da una strada, la Via Caesaris. Costruita nel I sec. a.C., iniziava a Ravenna da Porta Cesarea e, seguendo un tratto rettilineo, attraversava Cesarea, Classe e terminava il suo corso nella via Popilia. Il porto di Classe Il porto di Classe poteva contenere fino a 250 navi da guerra alla fonda. Lungo il canale artificiale e attorno ai bacini si potevano vedere arsenali e depositi a perdita d'occhio; lo sviluppo delle banchine d'attracco raggiungeva i 3 km.. Il numero di soldati che vivevano a Classe era elevato: si aggirava intorno ai 10.000, tra legionari e ausiliari. Una azienda agricola aveva la funzione di produrre generi alimentari per il loro sostentamento. Da questo porto sembra iniziò la seconda campagna contro i Daci da parte di Traiano, come rappresentato sulla omonima Colonna, contrariamente a quanti sostengono che il porto sia da identificarsi con Brindisi o Ancona. Il sobborgo di Classe si sviluppò attorno a caserme, magazzini e all'accampamento dei classiari (i soldati della marina). A partire dal II sec. si sviluppò, dal nucleo originario, la cittadina. Nel III-IV sec. fu costruita attorno all'abitato una cinta muraria a forma di semicerchio. A causa della subsidenza che affligge l'area ravennate, però, il territorio, abbassandosi, divenne progressivamente paludoso. All'inizio del IV sec., tale fenomeno era così evidente che le banchine, i cantieri e le strade di accesso al porto erano diventate inservibili. Nel 330 l'imperatore Costantino I decise di trasferire la base della flotta nella nuova capitale dell'impero, Costantinopoli. Il porto fu riattivato verso il V sec.. Ciò determinò una rinnovata crescita dell'abitato di Classe, che si protrasse anche nel secolo successivo, quando assurse al rango di città. Al tempo del re goto Teoderico (493-526), infatti, la Basilica Petriana di Classe, che trae il nome dal vescovo fondatore San Pietro Crisologo (432-450), fu dotata di battistero. Altro importante monumento religioso edificato in questo periodo fu la Basilica di San Severo (con annesso complesso monastico), oggi scomparsa. Epoca bizantina Nella prima metà del VI sec., durante l'episcopato di Sant'Ursicino, fu costruita a Classe una basilica, dedicata a Sant'Apollinare, proto-vescovo di Ravenna. Prese il nome di Basilica di Sant'Apollinare in Classe ed esiste tuttora. La cinta muraria di Classe fu distrutta fino alle fondamenta dal duca longobardo Faroaldo I, che saccheggiò la città nel 580-581. Fu liberata nel 585 dal duca Drottulfo, un longobardo passato ai bizantini. Classe fu conquistata una seconda volta dai Longobardi: il duca di Spoleto, Faroaldo II, approfittò della guerra in corso tra l'Impero d'Oriente e gli Arabi per attaccare la città. Solo dopo le proteste dell'esarca, Scolastico, Faroaldo restituì la città ai bizantini (nel 712 o 713). Classe fu presa dai Longobardi per la terza volta nel 717: re Liutprando saccheggiò la città e cinse d'assedio Ravenna. Nell'870 i pirati saraceni sbarcarono sul litorale saccheggiando la basilica di Sant'Apollinare in Classe. Gli abitanti abbandonarono Civitas Classis e si rifugiarono dentro le mura di Ravenna. Monumenti Basilica Petriana La Basilica Petriana fu la prima chiesa cristiana di Classe. Iniziata da San Pietro Crisologo, nella prima metà del V sec., fu terminata dal successore Neone. Grande edificio a tre navate, la basilica era preceduta da un quadriportico. Nel 725 crollò a causa di un terremoto. Basilica di San Severo Fu costruita nel VI sec. nei pressi della Via Caesaris, la strada maestra che collegava Classe a Ravenna, in un'area dove sorgeva l'abitazione del vescovo Severo, cui fu dedicata. Basilica bizantina a tre navate, fu iniziata dall'arcivescovo Pietro IV (570-575) e terminata dal successore Giovanni IV (576-593) che ordinò la traslazione delle spoglie mortali del santo. La chiesa sopravvisse al terremoto del 725, ma la salma di san Severo fu trasportata in Germania, a Magonza, dove da allora riposa nel Duomo di Erfurt. Nel 1468 la basilica fu demolita perché in rovina e sul luogo ne fu costruita una nuova, più piccola, la quale, restaurata e rinnovata nel XVIII sec. poi abbandonata, risultava definitivamente distrutta attorno al 1820. Esplorazione archeologica L'area intorno a Classe è stata oggetto di diverse indagini archeologiche a partire dal XX sec.. Viste le dimensioni della flotta militare romana, era lecito pensare di poter ritrovare la struttura portuale, pur sommersa da metri e metri di argilla accumulatasi nel corso dei secoli. Un aiuto decisivo alle ricerche è stato fornito dalle fotografie aeree. Poche centinaia di metri a sud dell'attuale alveo dei Fiumi Uniti è stata localizzata la bocca del porto a forcipe. Negli anni successivi furono rinvenute nella stessa zona grosse strutture murarie relative all'imbocco del porto. Si è ritenuto che fossero i resti delle protezioni contro le correnti marine. Nel podere Chiavichetta (a lato di via Romea vecchia) sono emerse le banchine ed è stata rinvenuta traccia di un isolotto, dentro il canale, collegato alla terraferma da un ponte mobile. La strada selciata di collegamento da Ravenna a Civitas Classis (via Caesaris) è stata rinvenuta sotto viale Galileo Galilei, al fondo di quattro piani stradali, dove il livello più antico è stato datato al I sec. d.C. Altre tracce di via Caesaris sono emerse a nord del Ponte Nuovo. Le ricerche effettuate nel Podere Chiavichetta hanno portato alla scoperta delle fondamenta di magazzini per lo stoccaggio delle merci (il quartiere commerciale ed artigianale). Nei primi anni settanta, durante gli scavi è emersa la Tyche (rappresentazione della fortuna e dell'anima) di Ravenna: una testa turrita in marmo, inserita presumibilmente in un rilievo di un edificio (pubblico o di culto) che raffigura la dea protettrice della città. Il 28/7/2015 è stato inaugurato il Parco archeologico dell'antico porto di Classe completamente ristrutturato.

Classis Ravennatis

La Classis Ravennatis era la flotta imperiale romana istituita da Augusto intorno al 27 a.C.. Era di stanza a Ravenna ed era la seconda flotta dell'Impero per importanza. Aveva il compito di sorvegliare la parte orientale del Mediterraneo. Fu rinominata Classis Praetoria Ravennatis Pia Vindex; l'attributo praetoria indica il compito di custodia dell'Italia e dell'imperatore. Storia La flotta fu istituita da Augusto per pattugliare e difendere il Mediterraneo orientale, ovvero tutta l'area ad est del mare Adriatico. Troviamo, infatti, sue vexillationes anche nel regno del Bosforo Cimmerio. Alcune sue vexillationes sembra parteciparono alla spedizione partica di Traiano o di Lucio Vero. Dal porto di Classe sembra iniziò la seconda campagna contro i Daci da parte di Traiano, come rappresentato sulla omonima Colonna, contrariamente a quanti sostengono che il porto sia da identificarsi con Brindisi o Ancona. La flotta fu sequestrata da Settimio Severo durante la guerra civile degli anni 193-197. L'area portuale Il porto di Classe era simile per conformazione a quello di Miseno, sul mar Tirreno, dove aveva sede la flotta per il Mediterraneo occidentale, ma nel suo complesso non era del tutto naturale. Le lagune, interne rispetto alla costa, erano separate dal mare da un sistema di dune costiere. Per mettere in comunicazione il porto con il mare, i romani scavarono un canale tra le dune. Un secondo canale, la Fossa Augusta, congiungeva Classe con Ravenna, proseguiva la sua corsa tagliando in due la città in senso sud-nord, poi terminava nel Po di Primaro. In città, lungo la Fossa Augusta, si trovava la fabbrica delle navi: l'arsenale. Esso fu attivo fino al tempo del re goto Teoderico. Attorno ai bacini si potevano vedere depositi a perdita d'occhio; lo sviluppo delle banchine raggiungeva i 3 km e poteva ospitare fino a 250 imbarcazioni. La base militare ebbe poi alcuni distaccamenti nei principali porti del Mediterraneo, come ad esempio nel mar Egeo a il Pireo-Atene, o nel mare Adriatico ad Aquileia o Salona. A causa della subsidenza, il territorio ravennate, abbassandosi, divenne progressivamente paludoso. All'inizio del IV sec., tale fenomeno fu così evidente che le banchine, i cantieri e le strade di accesso al porto erano diventate inservibili. Considerate queste condizioni, l'imperatore Costantino decise di trasferire la base della flotta a Bisanzio. Tipologia di imbarcazioni Nella vicina necropoli di Ravenna, sono stati rinvenuti i nomi di alcune navi e di alcuni ufficiali incisi su stele funerarie in marmo: - 2 quinqueremi: Augustus, Victoria. - 6 quadriremi: Fortuna, Mercurius, Neptunus, Padus, Vesta, Victoria. triremi: Aesculapius, Apollo, Aquila, Archinix, Ariadna, Augusta, Castor, Concordia, Costantia, Danae, Diana, Danubius, Felicitas, Hercules, Iside, Mars, Mercurius, Minerva, Neptunus, Nereis, Ops, Pax, Pietas, Pinnata, Providentia, Silvanus, Triumphus, Venus, Virtus, Victoria. - 5-7 liburne: Ammon, Clupeus (da Caorle), Diana, Pinnata, Satyra, Varvarina, Sphinge (?). - 5 navi di altro tipo: Clementia (incerto se appartenente alla flotta misenense o ravennate), Danubius, Hercules, Mercurius (incerto se appartenente alla flotta misenense o ravennate), Victoria. Il corpo di truppa Anche per la flotta ravennate il numero degli effettivi si aggirava intorno ai 10.000 tra legionari e ausiliari. Il comandante della flotta era il Praefectus classis Ravennatis ovvero il comandante dell'intero bacino dell'Adriatico, appartenente all'ordine equestre. A sua volta il diretto subordinato del praefectus era un sub praefectus, a sua volta affiancato da una serie di praepositi, ufficiali posti a capo di ogni pattuglia per singola località. Altri ufficiali erano poi il Navarchus princeps, che corrisponderebbe al grado di contrammiraglio di oggi. Nel III sec. fu poi creato il Tribunus classis con le funzioni del Navarchus princeps, più tardi tribunus liburnarum. La singola imbarcazione era poi comandata da un trierarchus (ufficiale), dai rematori e da una centuria di marinai-combattenti (manipulares/milites liburnarii). Il personale della flotta (Classiari o Classici) era perciò diviso in due gruppi: gli addetti alla navigazione ed i soldati. Il servizio durava 26 anni (contro i 20 dei legionari ed i 25 degli auxilia). Dal III sec. la ferma fu aumentata fino a 28 anni. Al momento del congedo (Honesta missio) ai marinai erano date: una liquidazione, dei terreni e di solito anche la cittadinanza romana, provenendo essi dalla condizione di peregrini al momento dell'arruolamento. Il matrimonio, invece, era permesso loro solo al termine del servizio attivo permanente. Cronotassi dei comandanti della flotta Si ricordano alcuni Praefecti classis Ravennatis: • al tempo dell'Imperatore Nerone, il Praefectus classis Ravennatis era Publio Clodio Quirinale. Accusato di empietà per aver oppresso con la sua dissoluta crudeltà l'Italia fu condannato a morte. Evitò l'onta dell'esecuzione con il veleno. • al tempo della guerra civile degli anni 68-69, l'imperatore Vitellio affidò il comando delle flotte Ravennatis e Misenis a un membro dell'ordine equestre di nome Sesto Lucilio Basso. Quest'ultimo poco dopo tradì Vitellio e passò dalla parte di Vespasiano, consegnandogli la flotta Ravennatis. • sotto Vespasiano, il comando passò nelle mani del sostenitore dei Flavi, Cornelio Fusco. Con i marinai della flotta Ravennatis, nel 70 d.C. fu formata una nuova legione, la II Adiutrix. • Tito Appalio Alfino Secondo, verso la seconda parte del II sec.. • Tito Cornasidio Sabino, tra la fine del II e la prima parte del III sec.. • Gneo Marcio Rustio Rufino, al tempo di Settimio Severo e Caracalla.
181 preporuka/e lokalaca
Ravenna
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La Classis Ravennatis era la flotta imperiale romana istituita da Augusto intorno al 27 a.C.. Era di stanza a Ravenna ed era la seconda flotta dell'Impero per importanza. Aveva il compito di sorvegliare la parte orientale del Mediterraneo. Fu rinominata Classis Praetoria Ravennatis Pia Vindex; l'attributo praetoria indica il compito di custodia dell'Italia e dell'imperatore. Storia La flotta fu istituita da Augusto per pattugliare e difendere il Mediterraneo orientale, ovvero tutta l'area ad est del mare Adriatico. Troviamo, infatti, sue vexillationes anche nel regno del Bosforo Cimmerio. Alcune sue vexillationes sembra parteciparono alla spedizione partica di Traiano o di Lucio Vero. Dal porto di Classe sembra iniziò la seconda campagna contro i Daci da parte di Traiano, come rappresentato sulla omonima Colonna, contrariamente a quanti sostengono che il porto sia da identificarsi con Brindisi o Ancona. La flotta fu sequestrata da Settimio Severo durante la guerra civile degli anni 193-197. L'area portuale Il porto di Classe era simile per conformazione a quello di Miseno, sul mar Tirreno, dove aveva sede la flotta per il Mediterraneo occidentale, ma nel suo complesso non era del tutto naturale. Le lagune, interne rispetto alla costa, erano separate dal mare da un sistema di dune costiere. Per mettere in comunicazione il porto con il mare, i romani scavarono un canale tra le dune. Un secondo canale, la Fossa Augusta, congiungeva Classe con Ravenna, proseguiva la sua corsa tagliando in due la città in senso sud-nord, poi terminava nel Po di Primaro. In città, lungo la Fossa Augusta, si trovava la fabbrica delle navi: l'arsenale. Esso fu attivo fino al tempo del re goto Teoderico. Attorno ai bacini si potevano vedere depositi a perdita d'occhio; lo sviluppo delle banchine raggiungeva i 3 km e poteva ospitare fino a 250 imbarcazioni. La base militare ebbe poi alcuni distaccamenti nei principali porti del Mediterraneo, come ad esempio nel mar Egeo a il Pireo-Atene, o nel mare Adriatico ad Aquileia o Salona. A causa della subsidenza, il territorio ravennate, abbassandosi, divenne progressivamente paludoso. All'inizio del IV sec., tale fenomeno fu così evidente che le banchine, i cantieri e le strade di accesso al porto erano diventate inservibili. Considerate queste condizioni, l'imperatore Costantino decise di trasferire la base della flotta a Bisanzio. Tipologia di imbarcazioni Nella vicina necropoli di Ravenna, sono stati rinvenuti i nomi di alcune navi e di alcuni ufficiali incisi su stele funerarie in marmo: - 2 quinqueremi: Augustus, Victoria. - 6 quadriremi: Fortuna, Mercurius, Neptunus, Padus, Vesta, Victoria. triremi: Aesculapius, Apollo, Aquila, Archinix, Ariadna, Augusta, Castor, Concordia, Costantia, Danae, Diana, Danubius, Felicitas, Hercules, Iside, Mars, Mercurius, Minerva, Neptunus, Nereis, Ops, Pax, Pietas, Pinnata, Providentia, Silvanus, Triumphus, Venus, Virtus, Victoria. - 5-7 liburne: Ammon, Clupeus (da Caorle), Diana, Pinnata, Satyra, Varvarina, Sphinge (?). - 5 navi di altro tipo: Clementia (incerto se appartenente alla flotta misenense o ravennate), Danubius, Hercules, Mercurius (incerto se appartenente alla flotta misenense o ravennate), Victoria. Il corpo di truppa Anche per la flotta ravennate il numero degli effettivi si aggirava intorno ai 10.000 tra legionari e ausiliari. Il comandante della flotta era il Praefectus classis Ravennatis ovvero il comandante dell'intero bacino dell'Adriatico, appartenente all'ordine equestre. A sua volta il diretto subordinato del praefectus era un sub praefectus, a sua volta affiancato da una serie di praepositi, ufficiali posti a capo di ogni pattuglia per singola località. Altri ufficiali erano poi il Navarchus princeps, che corrisponderebbe al grado di contrammiraglio di oggi. Nel III sec. fu poi creato il Tribunus classis con le funzioni del Navarchus princeps, più tardi tribunus liburnarum. La singola imbarcazione era poi comandata da un trierarchus (ufficiale), dai rematori e da una centuria di marinai-combattenti (manipulares/milites liburnarii). Il personale della flotta (Classiari o Classici) era perciò diviso in due gruppi: gli addetti alla navigazione ed i soldati. Il servizio durava 26 anni (contro i 20 dei legionari ed i 25 degli auxilia). Dal III sec. la ferma fu aumentata fino a 28 anni. Al momento del congedo (Honesta missio) ai marinai erano date: una liquidazione, dei terreni e di solito anche la cittadinanza romana, provenendo essi dalla condizione di peregrini al momento dell'arruolamento. Il matrimonio, invece, era permesso loro solo al termine del servizio attivo permanente. Cronotassi dei comandanti della flotta Si ricordano alcuni Praefecti classis Ravennatis: • al tempo dell'Imperatore Nerone, il Praefectus classis Ravennatis era Publio Clodio Quirinale. Accusato di empietà per aver oppresso con la sua dissoluta crudeltà l'Italia fu condannato a morte. Evitò l'onta dell'esecuzione con il veleno. • al tempo della guerra civile degli anni 68-69, l'imperatore Vitellio affidò il comando delle flotte Ravennatis e Misenis a un membro dell'ordine equestre di nome Sesto Lucilio Basso. Quest'ultimo poco dopo tradì Vitellio e passò dalla parte di Vespasiano, consegnandogli la flotta Ravennatis. • sotto Vespasiano, il comando passò nelle mani del sostenitore dei Flavi, Cornelio Fusco. Con i marinai della flotta Ravennatis, nel 70 d.C. fu formata una nuova legione, la II Adiutrix. • Tito Appalio Alfino Secondo, verso la seconda parte del II sec.. • Tito Cornasidio Sabino, tra la fine del II e la prima parte del III sec.. • Gneo Marcio Rustio Rufino, al tempo di Settimio Severo e Caracalla.